Senza radici
“Palestine’s a country / Or at least / Used to be. / Felahin, refugee / (Kurdistan similarly) / Need something to / Build on / Rather like / The rest of us.”
Quando si è a corto di soldi ci si arrangia come si può. E peccato se il lavoro sarebbe potuto uscire meglio. Così Dondestan, il gran ritorno di Robert Wyatt dopo anni di silenzio fu dato alle stampe nel 1991 con un missaggio frettoloso e approssimativo (così riteneva lui, perché era già un gran bel disco). Ma evidentemente a Robert il cruccio era rimasto così nel 1998 riesce a riportarlo in studio di registrazione e a rimettere mano ai nastri originali: il risultato è Dondestan (revisited). Disco, a un orecchio attento, dal suono un po’ più cupo e compatto. Per il resto se si eccettua la diversa scaletta dei brani difficile riconoscere l’uno e l’altro e ancor più decidere quale delle due versioni preferire. Insomma l’unica strada percorribile è godersi due volte questo album doppio che vale molto di più di tanti doppi album. Triste notare come il brano che dà il titolo all’album e che trattava dell’impossibilità di avere una patria per curdi e palestinesi sia ancora tristemente attuale.
“Il lato nuovo di questo lavoro é che i testi delle canzoni erano delle poesie di Alfie; mi piacciono molto le sue poesie perché c’é molto di non detto. Chiamai il disco Dondestan perché aveva un doppio significato: in spagnolo significa “dove stai” e, sempre in spagnolo, ricorda qualcosa della repubblica euroasiatica. Qualcosa come dichiarare se stessi indipendenti da qualcuno o qualcosa. Io spesso mi sento in esilio da non so quale paese e anche tante persone che conosco sembrano essere degli esiliati. E’ un disco sulla mancanza di radici, questo lo si sente sia nelle canzoni che nei testi di mia moglie”.
Cani sciolti
Il jazz dell’apartheid
L’apartheid, il sistema di segregazione razziale che per decenni ha disonorato il Sudafrica non risparmiò neppure la musica. I Blue Notes, formazione jazz che includeva musicisti bianchi e neri, erano costretti a esibirsi in clandestinità. Fu così che molti musicisti come Mongezi Feza e Dudu Pukwana andarono a cercare fortuna in Inghilterra. Tantissime collaborazioni con musicisti jazz e progressive e un paio di dischi a nome Assagai (il primo uscito per la Vertigo nel 1971). A Mongezi Feza, trombettista eclettico e sbarazzino, toccò una fine troppo precoce, nel 1975, a soli trent’anni, per una polmonite mal curata. Aveva da poco collaborato a quei due capolavori che sono Rock Bottom di Robert Wyatt e In Praise of Learning degli Henry Cow. Mongs lasciò in eredità alla musica britannica quella sfrenata energia e gioia di vivere tipica della township music dei ghetti delle metropoli sudafricane.
La musica è un gioco
Furono molti gli artisti che negli anni sessanta e settanta si stabilirono a Ibiza. Tra questi uno dei musicisti più affezionati all’isola fu il folletto Kevin Ayers che preferì sempre il calore e i divertimenti dell’isola al perseguimento del successo. Dopo un’infanzia passata in Malesia (e i cui echi si sentono in pezzi come Oleh oleh bandu bandung) e l’adolescenza a Canterbury dove fondò con i fratelli Hopper e Robert Wyatt i Wilde Folwers, trovò proprio alle Baleari il denaro per mettere in piedi i Soft Machine. Ayers e Daevid Allen convinserò infatti il milionario americano Wes Brunson a finanziarli per l’acquisto di tutta la strumentazione necessaria al loro progetto musicale. Ma come detto Ayers preferiva spassarsela e così abbandonò il gruppo dedicandosi in maniera saltuaria alle sue esperienze soliste e sfogare la sua multiforme e allegra creatività come in quella giocosa sarabanda sonora di Joy of a Toy, il suo esordio solista pubblicato dalla Harvest nel 1969.
Canterbury al pesto
Picchio Dal Pozzo. A volte la scelta del nome del gruppo è decisiva. E in questo caso azzeccatissima. Nome splendido. Copertina altrettanto evocativa, ripresa da un libro tedesco di illustrazioni per bambini. Musica che attinge sì al jazz-rock di Canterbury ma lo interpreta con un’originalità e una sensibilità fuori dal comune. Non solo epigoni di Soft Machine e compagnia wyattante.
Gospel per Stalin
Un coro gospel americano che inneggia a Stalin: è successo davvero. Anno 1943. Il mondo in guerra. Bisognava scongiurare la minaccia nazista a tutti i costi e non si poteva andare tanto per il sottile nella scelta dei propri alleati foss’anche il dittatore georgiano. Nacque in quei giorni Stalin wasn’t stallin’, coro a cappella dei Golden Gate Jubilee Quartet, dove si tessono le lodi di Stalin.
Al top col pop
“Mi pare che in una intervista mi avessero chiesto quali fossero le mie dieci canzoni preferite e io avevo subito accettato, perché mi diverto a stilare quegli elenchi. La lista finì in mano a Simon Draper della Virgin, che notò la presenza di quel vecchio successo dei Monkees e mi domandò: «Dicevi sul serio?» Io avevo bluffato, lui era venuto a vedere e quindi risposi di sì. Entrai in studio e incisi I’m A Believer.”
Registrata quasi per scherzo con Nick Mason dei Pink Floyd alla batteria, Fred Frith alla chitarra, Richard Sinclair al basso e Dave MacRae al piano, il brano entra nelle classifiche dei singoli più venduti tanto da ricevere l’invito a eseguirla in TV.
Ma quando trapela che il produttore Robin Nash di Top of the Pops ha detto che non sta bene mostrare la sedia a rotelle negli spettacoli d’intrattenimento per le famiglie Robert Wyatt propone provocatoriamente di presentarsi con tutto il complesso in sedia a rotelle. Alla fine la spunta Wyatt che comparirà davanti al pubblico di Sua Maestà con la sua sedia a rotelle ma sarà una vittoria effimera: il grande musicista britannico sarà per questo, e per una proposta musicale sempre controcorrente, messo in disparte e tenuto lontano dai riflettori della TV.