Il jazz dell’apartheid

L’apartheid, il sistema di segregazione razziale che per decenni ha disonorato il Sudafrica non risparmiò neppure la musica. I Blue Notes, formazione jazz che includeva musicisti bianchi e neri, erano costretti a esibirsi in clandestinità. Fu così che molti musicisti come Mongezi Feza e Dudu Pukwana andarono a cercare fortuna in Inghilterra. Tantissime collaborazioni con musicisti jazz e progressive e un paio di dischi a nome Assagai (il primo uscito per la Vertigo nel 1971). A Mongezi Feza, trombettista eclettico e sbarazzino, toccò una fine troppo precoce, nel 1975, a soli trent’anni, per una polmonite mal curata. Aveva da poco collaborato a quei due capolavori che sono Rock Bottom di Robert Wyatt e In Praise of Learning degli Henry Cow. Mongs lasciò in eredità alla musica britannica quella sfrenata energia e gioia di vivere tipica della township music dei ghetti delle metropoli sudafricane.

Dall’Illinois all’Île de France

Invitati nel 1969 a un festival a Parigi la Roscoe Mitchell Art Ensemble volò dall’Illinois in Europa. Il gruppo di jazzisti vide nella Francia post-sessantottina  un ottimo brodo di coltura dove fare attecchire le proprie miscele sonore che incorporavano tanto elementi della tradizione africana quanto dell’avanguardia più colta. Così, ribattezzatosi Art Ensemble of Chicago, rimasero un paio d’anni in Francia e a Parigi registrarono una serie di grandi dischi a cominciare dalla colonna sonora di Les Stances a Sophie, pellicola che trattava di liberazione sessuale e in cui i musicisti comparivano in alcune scene sul palco con i volti dipinti come tradizionali guerrieri africani.

Colonna sonora fantastica arricchita dalla splendida voce di Fontella Bass, moglie del trombettista Lester Bowie. A completare la superba formazione dell’Art Ensemble of Chicago c’erano Roscoe Mitchell (sax e clarino), Joseph Jarman (sax), Malachi Favors (contrabbasso) e Don Moye (batteria e percussioni).

Corni d’Africa

Fu merito del genio di Jim Jarmusch, che lo inserì nella colonna sonora di Broken Flowers, la riscoperta di Mulatu Astatke, musicista etiope autore di una brillante miscela di ritmi africani e della tradizione copta, latini e jazz.

Trasferitosi negli anni sessanta per studiare musica prima a Londra e poi, nei settanta, a Boston ha dovuto aspettare gli anni duemila per avere quella notorietà rimasta confinata ai cultori dell’ethio-jazz.

Come San Tommaso mettetici il naso (e le orecchie)

Cosa si può scrivere di un disco che è ritenuto tra i migliori album jazz di sempre? Poco o niente, la cosa migliore è riascoltarselo e basta. Non ve ne frega niente che la traccia iniziale St. Thomas è stata a lungo la mia sveglia mattutina? E chi se ne importa, in fondo avete pienamente ragione. Dimentivavo: il disco è Saxophone Colossus e lui è Sonny Rollins in compagnia di Max Roach alla batteria, Tommy Flanagan al piano e Doug Watkins al contrabbasso. L’anno è il 1956.

Tacchi a molla

“Jack dai tacchi a molla” è un personaggio bizzarro e diabolico della Londra vittoriana. Capace di saltare un muretto senza prendere la rincorsa. Spring Heel Jack è un progetto musicale capace di saltare i rigidi steccati dei generi.
Nati come duo di drum n’ bass hanno via via incorporato elementi jazzistici reclutando il meglio dell’avanguardia degli anni ’70 come l’olandese Han Bennink o collaboratori dei Soft Machine come Evan Parker e Paul Rutherford senza dimenticare l’apporto di J Spaceman, al secolo Jason Pierce, chitarrista di Spacemen 3 e Spiritualized. Merito degli Spring Heel Jack la sapienza nel riuscire ad amalgamare il tutto con un’elettronica calda capace di non rendere mai ostico l’impasto sonoro che, ancorché complesso, risulta sempre piacevole e interessante.

L’omino dei sogni

Il sandman è,  nel folklore del Nord Europa, l’omino dei sogni, quella creatura che getta la sabbia negli occhi per portare il sonno. E Mark Sandman, rispettando il suo nome, ha portato sogni fumosi e caliginosi per tutta la  carriera e finché suo cuore gli ha retto. Poi la sera del 3 luglio del ’99 si è fermato, tra una canzone e l’altra sul palco di Palestrina mentre si esibiva con suoi Morphine. Il trio di Boston (con Sandman che suonava un basso con due sole corde, Jarome Dupree prima e Billy Conway poi alla batteria e Dana Colley al sax baritono) aveva saputo creare una splendida miscela di blues, rock e jazz caratterizzata dall’assenza della onnipresente chitarra.

Finti ma di classe

Guidati dall’allampanato John Lurie, che sarà protagonista con Roberto Benigni e Tom Waits del film di Jim Jarmusch Daunbailò, i newyorkesi Lounge Lizards furono inizialmente tacciati di suonare fake-jazz visto la loro provenienza da ambienti punk e no wave. Ma è proprio l’approccio poco ortodosso al jazz a dare quel quid in più al loro esordio, eponimo, del 1981. Con John Lurie in quella prima prova discografica c’erano il fratello Evan al piano, il bassista Steve Piccolo, il batterista Anton Fier e il chitarrista di origini brasiliane Arto Lindsay, già nei DNA.

L’importanza della Consonanza

Ribattezzatosi per l’occasione The Group, il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza registra nel 1970 questo disco sospeso tra jazz, avanguardia e psichedelia. Ennio Morricone si traveste da Miles Davis e con la sua tromba sottolinea i fraseggi di Franco Evangelisti, Mario Bertoncini, Walter Branchi, Bruno Battisti D’Amario, Egisto Macchi, Renzo Restuccia e John Heineman. L’intellighenzia della musica sperimentale e d’avanguardia italiana in uno scenario di jungla forato dagli stridii degli uccelli meccanici in copertina.

Ovviamente per avere una ristampa di questo album si è dovuto attendere la bellezza di quarantaquattro anni!

Cuore di pietra (Made in Japan #6)

La sanukite è una roccia vulcanica. La velocità del suono nella sanukite è di circa sei chilometri al secondo. Prima che musicisti come Stomu Yamashta, percussionista ed enfant prodige nipponico, e Lionel Hampton, eccezionale vibrafonista jazz, scoprissero le qualità sonore della sanukite ci avevano pensato già i monaci buddisti ad utilizzare la sanukite nei templi per estrarre suoni durante le funzioni.

“Lo strumento parlava da solo. Era un universo in sé. E io dovevo essere e sentirmi parte di quell’universo. Questo più grande Sé, universale, che noi chiamiamo dai-ga, doveva incorporarmi. E quando sono diventato consapevole dell’esistenza di questo grande Sé, solo allora ho fatto esperienza del vuoto, del silenzio: sono diventato davvero parte del cosmo”

L’anarchia flottante dei folletti folli

Ho pescato su Youtube un video dei fenomenali Gong di Daevid Allen, quando nel 1971 parteciparono alla trasmissione Jazz Land della TV francese. La formazione, mancano ancora il batterista Pip Pyle e il chitarrista  Steve Hillage è praticamente quella che da lì a poco darà inizio alla saga di Radio Gnome, della Teiera Volante e dei Folletti del pianeta Gong. Folli sarabande in cui si mescolano i suoni di Canterbury, della psichedelia, della West Coast americana a caratterizare la loro musica apolide.  E non poteva essere altrimenti per un gruppo capitanato da un australiano di stanza a Parigi.