I fantocci di carne

Il massimo successo dei Meat Puppets  è l’album Too High to Die, pubblicato nel 1994 dopo il clamoroso successo del concerto unplugged dei Nirvana che per l’occasione ospitarono i fratelli Kirkwood,  insieme due terzi della band di Phoenix, ed eseguirono ben tre brani dal loro secondo LP, risalente al 1983 e pubblicato dopo un ipercinetico primo EP che condensava cinque tracce nello spazio di complessivi cinque minuti e sedici secondi e un primo album dove stavolta si incrementava il minutaggio ad una media di un minuto e mezzo a brano!

Inseriti a torto nel carrozzone del grunge la loro musica era quella dell’hardcore mediato dal country e dalla psichedelia. Ricordo una intervista dell’epoca in cui dichiaravano che mentre a Seattle c’erano i salmoni, in Arizona c’era il sole che rendeva tutti schizzati. E non si può che convenirne e andarsi a riascoltare quel Meat Puppets II che tanto piaceva a Kurt Cobain.

Bandiera nera

Canto del cigno dei Black Flag,  punta di diamante dell’hardcore californiano, l’EP The Process of Weeding Out è un disco esclusivamente strumentale che rappresenta un ponte gettato sul futuro visto che introduce negli schemi dell’hardcore elementi addirittura jazz. L’EP è di fatto tutta farina del sacco del chitarrista Greg Ginn mancando l’apporto del cantante, l’energumeno Henry Rollins, da poco allontanato dal gruppo.

Atti osceni

Nel 1988 Steve Albini, messa da parte l’esperienza dei Big Black arruola la sezione ritmica dei seminali Scratch Acid,  il batterista Rey Washam e il bassista David Sims e dà vita ai Rapeman: un EP intitolato Budd e un LP, Two Nuns and a Pack Mule, entrambi licenziati dalla Touch & Go, poi lo sciogliete le righe prima di varare gli altrettanto formidabili Shellac.

Spietato negli effetti chitarristici, osceno nei testi, esemplare l’attacco ai Sonic Youth, colpevoli agli occhi del nostro di essersi venduti alla major discografiche con Kim Gordon’s painties, Albini ridisegna i confini del noise e dell’hardcore. C’è già tutto: i Nirvana (che vedranno proprio Albini al mixer per l’album In Utero), i Jesus Lizard, gli Slint verranno solo in seguito.

I surfisti di quel posto

“There’s a time to shit and time for God”

Eredi della più sballata psichedelia texana (cito Red Crayola e The 13th Floor Elevators ma ci sarebbe  tutto un sottobosco da scoprire), i Butthole Surfers – sì, i surfisti di quel posto lì – hanno descritto una parabola la cui fase ascendente è stata punteggiata da usa serie di dischi splendidi ed oltraggiosi. Ho scritto eredi della psichedelia ma con i piedi mal piantati nell’hardcore più fangoso e viscerale. Il primo EP eponimo esce per la Alternative Tentacles di Jello Biafra dei Dead Kennedys nel 1983, poi due LP devastanti per la Touch & Go, Psychic Powerless (1984) e Rembrandt Pussyhorse (1986) sono campionari di volgarità e temi grotteschi eppure capaci di entrare in territori avanguardistici con i loro collage di rumori non di rado oscenamente organici. Questi gli episodi imperdibili di una carriera che andrà avanti per un altro decennio di continuo sberleffo per tutto e tutti.

 

La schiuma dei giorni cattivi

Un disco di ventotto tracce suonate in trentatré minuti non è record ma poco ci manca. Ma al di là del dato statistico, Scum, l’album d’esordio dei Napalm Death, uscito nel 1987, è un concentrato di cattiveria senza pari in cui viene alzata l’asticella dell’hardcore fino ad arrivare al grindcore, dove to grind è verbo inglese che sta per polverizzare, macinare, frantumare. Questi i verbi coniugati nel disco del gruppo instabile anche nella formazione tanto da vedere sul lato A il trio composto da Mick Harris (poi Painkiller, Scorn e tanti altri), Nicholas Bullen (con Harris negli Scorn) e Justin Broadrick (poi Godflesh) e sul lato B del vinile un quartetto con ancora Harris in compagnia di Lee Dorian (poi Cathedral), Bill Steer (poi Carcass) e Jim Whitely.

Mediocrity Report

Quando arrivarono a decidere un nome per la band, pensarono a quei gruppi che vengono reclutati in fretta e furia per sostituirne qualcun altro. Così scartato un primo The Substitutes, scelsero The Replacements. E di band da rimpiazzare, portando aria fresca al panorama hardcore, ce n’erano fin troppe. Ma la musica dei Replacements, volutamente scanzonata era solo un modo per nascondere le paure e le insicurezze del cantante Paul Westerberg: insomma un far finta di non prendersi mai sul serio.

Nel furgone, durante il tour di Hootenanny, il rituale era questo: mettevano le mani una sull’altra e Paul diceva: “Dove stiamo andando?” e la band rispondeva: “Verso la mediocrità!”, “Quale mediocrità?”, “L’assolutà mediocrità!”

Nel 1984 dopo il grande successo dell’album Let it be un critico del ‘Village Voice’ scriveva: “sono un crogiolo di grandi speranze e di sentimenti modesti, di grugniti da gatti selvatici e di noia, pieni di desideri che cercano di tenere a distanza con un bastone, senza riuscirci”.
Non riuscirono a tenersi lontano soprattutto da alcool (in cui avevano sempre sguazzato) e droghe che dominarono la parabola discendente del gruppo seguendo il solito canovaccio, purtoppo questo sì, mediocre e risaputo del sex, drugs & rock’n’roll.