Gli Egg sono stati una delle tante grandi band minori uscite da quel crogiolo unico che fu la piccola cittadina di Canterbury. Nati nel 1967 come quartetto a nome Uriel divennero Egg l’anno seguente dopo l’abbandono di Steve Hillage per motivi di studio – i quattro si ritroveranno nel ’69 per registrare, sotto mentite spoglie, l’unico disco degli Arzachel – ed esordirono sulla lunga distanza nel 1970 con l’eponimo Egg. A questo primo album seguì l’anno seguente The Polite Force e nel ’74 The Civil Surface con il gruppo oramai già sciolto e il leader, il tastierista Dave Stewart già impegnato con gli Hatfield And The North.
A differenza di tanti musicisti diventati più zombie di Eddie degli Iron Maiden a forza di continuare a ripetere se stessi all’infinito c’è chi come Steve Hillage si è reincarnato di volta in volta in forme diverse. In principio furono gli Uriel che nel ’69 diedero alle stampe il loro primo e unico album sotto le mentite spoglie dei fantomatici Arzachel. Quando infatti uscì il disco parte del gruppo era già diventata Egg e il contratto con la Deram non ne avrebbero consentito la pubblicazione. Fu poi la volta dei Kahn, un unico visionario disco nel ’72.
Seguì un tour con Kevin Ayers e poi l’ingresso nella teiera volante dei Gong di Daevid Allen con i gradi di Submarine Captain. Hillage torna sulla Terra dalle imprese spaziali dei Gong quando nel ’77 esplode il punk e partecipa al disco degli Sham 69.
Con l’arrivo degli anni ’80 Hillage passa dietro la consolle e produce i dischi di Simple Minds e Robyn Hitchcock. Passa un decennio è torna con la sua chitarra nel seminale album elettronico degli Orb, The Orb’s Adventures beyond the Ultraworld.
Insomma una vita musicale sempre in continuo movimento nel segno della più genuina scuola di Canterbury.
“Palestine’s a country / Or at least / Used to be. / Felahin, refugee / (Kurdistan similarly) / Need something to / Build on / Rather like / The rest of us.”
Quando si è a corto di soldi ci si arrangia come si può. E peccato se il lavoro sarebbe potuto uscire meglio. Così Dondestan, il gran ritorno di Robert Wyatt dopo anni di silenzio fu dato alle stampe nel 1991 con un missaggio frettoloso e approssimativo (così riteneva lui, perché era già un gran bel disco). Ma evidentemente a Robert il cruccio era rimasto così nel 1998 riesce a riportarlo in studio di registrazione e a rimettere mano ai nastri originali: il risultato è Dondestan (revisited). Disco, a un orecchio attento, dal suono un po’ più cupo e compatto. Per il resto se si eccettua la diversa scaletta dei brani difficile riconoscere l’uno e l’altro e ancor più decidere quale delle due versioni preferire. Insomma l’unica strada percorribile è godersi due volte questo album doppio che vale molto di più di tanti doppi album. Triste notare come il brano che dà il titolo all’album e che trattava dell’impossibilità di avere una patria per curdi e palestinesi sia ancora tristemente attuale.
“Il lato nuovo di questo lavoro é che i testi delle canzoni erano delle poesie di Alfie; mi piacciono molto le sue poesie perché c’é molto di non detto. Chiamai il disco Dondestan perché aveva un doppio significato: in spagnolo significa “dove stai” e, sempre in spagnolo, ricorda qualcosa della repubblica euroasiatica. Qualcosa come dichiarare se stessi indipendenti da qualcuno o qualcosa. Io spesso mi sento in esilio da non so quale paese e anche tante persone che conosco sembrano essere degli esiliati. E’ un disco sulla mancanza di radici, questo lo si sente sia nelle canzoni che nei testi di mia moglie”.
Furono molti gli artisti che negli anni sessanta e settanta si stabilirono a Ibiza. Tra questi uno dei musicisti più affezionati all’isola fu il folletto Kevin Ayers che preferì sempre il calore e i divertimenti dell’isola al perseguimento del successo. Dopo un’infanzia passata in Malesia (e i cui echi si sentono in pezzi come Oleh oleh bandu bandung) e l’adolescenza a Canterbury dove fondò con i fratelli Hopper e Robert Wyatt i Wilde Folwers, trovò proprio alle Baleari il denaro per mettere in piedi i Soft Machine. Ayers e Daevid Allen convinserò infatti il milionario americano Wes Brunson a finanziarli per l’acquisto di tutta la strumentazione necessaria al loro progetto musicale. Ma come detto Ayers preferiva spassarsela e così abbandonò il gruppo dedicandosi in maniera saltuaria alle sue esperienze soliste e sfogare la sua multiforme e allegra creatività come in quella giocosa sarabanda sonora di Joy of a Toy, il suo esordio solista pubblicato dalla Harvest nel 1969.
Picchio Dal Pozzo. A volte la scelta del nome del gruppo è decisiva. E in questo caso azzeccatissima. Nome splendido. Copertina altrettanto evocativa, ripresa da un libro tedesco di illustrazioni per bambini. Musica che attinge sì al jazz-rock di Canterbury ma lo interpreta con un’originalità e una sensibilità fuori dal comune. Non solo epigoni di Soft Machine e compagnia wyattante.
Ho pescato su Youtube un video dei fenomenali Gong di Daevid Allen, quando nel 1971 parteciparono alla trasmissione Jazz Land della TV francese. La formazione, mancano ancora il batterista Pip Pyle e il chitarrista Steve Hillage è praticamente quella che da lì a poco darà inizio alla saga di Radio Gnome, della Teiera Volante e dei Folletti del pianeta Gong. Folli sarabande in cui si mescolano i suoni di Canterbury, della psichedelia, della West Coast americana a caratterizare la loro musica apolide. E non poteva essere altrimenti per un gruppo capitanato da un australiano di stanza a Parigi.