Hot Club (Jazz in Paris #2)

In una scena de La dea dell’amore, il protagonista, interpretato dal regista, Woody Allen, propone di chiamare il figlio Django come Django Reinhardt, il famoso chitarrista di origini sinti che con il violinista Stephane Grappelli, il bassista Louis Vola e gli altri due chitarristi Roger Chaput e il fratello minore di Reinhardt, Joseph formarono nel 1934 il Quintette de Hot Club de France. Nell’importante programma radiofonico newyorkese ideato da Boris Vian, il quintetto, che aveva la pecularietà di essere formato da soli strumenti a corda, venne presentato subito dopo Philippe Brun.

L’urgenza di un secondo, un quarto di secolo fa

C’era una volta il grunge, Seattle, i cadaveri straziati e mangiati degli Andrew Wood, dei Cobain e dei Layne Staley. C’era un calderone di dischi belli e brutti. Invero pochi reggono al setaccio del tempo trascorso. Tra questi Vs, il secondo disco dei Pearl Jam di Eddie Vedder e soci. Disco diretto e immediato, splendidamente rappresentato dal muso contro la recinzione della pecora in copertina, che preferisco agli anthem di Ten, il disco di esordio, e alla produzione successiva.

Dalle stalle alle stelle (o viceversa)

“siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro” (Bandiera bianca, Franco Battiato)

Così come è molto difficile non conoscere le hit Figli delle stelle e Tu sei l’unica donna per me è altrettanto facile non conoscere la vita precedente di Alan Sorrenti, una vita che comprende due ottimi dischi sperimentali Aria (1972) e Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto (1973) entrambi pubblicati dalla Harvest, la stessa etichetta dei Pink Floyd, e che vedono la presenza, nel primo LP, di un musicista del calibro di Jean Luc Ponty, violinista presente in più di un disco di Frank Zappa e, nel secondo LP, del flautista David Jackson dei Van der Graaf Generator.
Nel mezzo, prima di prendere la strada della musica da discoteca con annessa rapida ascesa e rovinosa caduta e un presente di apparizioni assolutamente imbarazzanti su cui è inutile infierire, il tentativo di cimentarsi con la canzone tradizionale napoletana, la classica Ditencello vuje, in chiave prog.

Scherzo mortale

The atmosphere’s strange / Out on the town / Music for pleasure? / It’s not music no more / Music to dance to… / Music to move? / This is music to march to! / Do a wardance”

Non c’era molto di cui compiacersi nella turbolenta Inghilterra del post-punk. E i Killing Joke arrivarono a gettare ulteriore benzina sul fuoco. Nacquero dall’incontro, leggenda vuole in un ufficio di collocamento londinese, tra giovanni disoccupati e arrabbiati. Nel marzo del 1980 uscì il singolo Wardance, in copertina Fred Astaire che balla su cumuli di macerie. Poi il primo album, con un’altra copertina programmatica, una foto di guerriglia urbana in un bianco e nero molto saturo e una serie di pezzi al vetriolo. Ci vorranno altri album prima che le vampe dell’esordio comincino ad apparire meno minacciose.

Il jazz strappacuore (Jazz in Paris #1)

Il libro Jazz in Paris raccoglie i testi delle trasmissioni radiofoniche preparate da Boris Vian per la WNEW. La radio newyorkese trasmise infatti nel periodo 1948-49 il meglio del jazz proveniente dalla capitale francese che vide in quegli anni un gran fermento grazie anche ai tanti musicisti americani che a Parigi trovarono il successo e lì scelsero di stabilirsi per periodi più o meno lunghi. Il primo artista ad essere presentato al pubblico americano fu il trombettista Philippe Brun, nato nel 1928 e negli anni al fianco di Django Reinhardt, Ray Ventura, Alix Combelle.

Costoletta di gruppo pop

Formatosi a Cheltenham, non lontano da Bristol, i Pigbag devono le loro fortune all’incontro con  il chitarrista Simon Underwood del Pop Group. E sarà proprio l’etichetta Y Records, la stessa del Pop Group, a pubblicare nella primavera del 1981 il primo singolo, lo strumentale Papa’s got a Brand New Pigbag il cui titolo scherza con la famosissima canzone di James Brown. Dopo  questo primo singolo  la carriera dei Pigbag continuerà fino al 1983 con una serie di album in cui l’elemento del funk colorerà l’impalcatura post-punk della loro musica.

Senza radici

“Palestine’s a country / Or at least / Used to be. / Felahin, refugee / (Kurdistan similarly) / Need something to / Build on / Rather like / The rest of us.” 

Quando si è a corto di soldi ci si arrangia come si può. E peccato se il lavoro sarebbe potuto uscire meglio. Così Dondestan, il gran ritorno di Robert Wyatt dopo anni di silenzio fu dato alle stampe nel 1991 con un missaggio frettoloso e approssimativo (così riteneva lui, perché era già un gran bel disco). Ma evidentemente a Robert il cruccio era rimasto così nel 1998 riesce a riportarlo in studio di registrazione e a rimettere mano ai nastri originali: il risultato è Dondestan (revisited). Disco, a un orecchio attento, dal suono un po’ più cupo e compatto. Per il resto se si eccettua la diversa scaletta dei brani difficile riconoscere l’uno e l’altro e ancor più decidere quale delle due versioni preferire. Insomma l’unica strada percorribile è godersi due volte questo album doppio che vale molto di più di tanti doppi album. Triste notare come il brano che dà il titolo all’album e che trattava dell’impossibilità di avere una patria per curdi e palestinesi sia ancora tristemente attuale.

“Il lato nuovo di questo lavoro é che i testi delle canzoni erano delle poesie di Alfie; mi piacciono molto le sue poesie perché c’é molto di non detto. Chiamai il disco Dondestan perché aveva un doppio significato: in spagnolo significa “dove stai” e, sempre in spagnolo, ricorda qualcosa della repubblica euroasiatica. Qualcosa come dichiarare se stessi indipendenti da qualcuno o qualcosa. Io spesso mi sento in esilio da non so quale paese e anche tante persone che conosco sembrano essere degli esiliati. E’ un disco sulla mancanza di radici, questo lo si sente sia nelle canzoni che nei testi di mia moglie”.

 

Labirinto Laborintus

Per il settecentesimo anniversario della nascita di Dante la radiotelevisione francese O.R.T.F.  commissiona a Luciano Berio una composizione che si rivelerà un vero labirinto di suoni e parole. Il grande musicista italiano infatti affida il libretto al poeta Edoardo Sanguineti che attingerà alla sua opera Laborintus edita nel 1956. Laborintus II è quindi un viaggio attraverso le rime del sommo poeta e molteplici intersezioni e rimandi a T.S. Eliot, Ezra Pound e allo stesso Sanguineti.

Si ricorderà di quest’opera il geniale Mike Patton che reinciderà nel 2012 Laborintus II con i musicisti belgi dello Ictus Ensemble.

La gnòsi delle fànfole

Nel 1997 Massimo Altomare e Stefano Bollani cominciano a mettere in musica le poesie metasemantiche di Fosco Maraini. La Gnòsi delle fànfole esce per  Sonica poco prima che l’etichetta fiorentina di Gianni Maroccolo fallisca.

Bollani e Altomare cercano anche musicalmente di ricreare le Fànfole di Maraini, pubblicate la prima volta nel 1966, caratterizzate dalla ricerca di un vocabolario nuovo in cui le parole pur prive di significato richiamano parole e suoni familiari.

“Il sentimento principale che le Fànfole ci regalavano era la malinconia, proprio come se quel mondo – il vecchio Troncia, le zie in bardocheta – ci fosse un tempo appartenuto e ci trovassimo a rimpiangerlo, fra vecchi amici che sanno di cosa stan parlando senza bisogno di spiegarselo” (Altomare e Bollani, dalle note alla ristampa del disco, con una tracklist leggermente modificata, unitamente al libro della Gnòsi delle Fanfole edito da Baldini e Castoldi).

Verità astratta

Nel 1962 Oliver Nelson, sassofonista laureatosi in composizione alla Lincoln University nel ’58 e con esperienze in big band arruola una formazione di all stars e con questa incide per la Impulse l’album The Blues and the Abstract Truth. Pezzo forte dell’album è il brano d’apertura, Stolen Moments, che diventerà un vero e proprio standard. I protagonisti di questa registrazione stellare? Freddie Hubbard alla tromba, Eric Dolphy al sassofono, Bill Evans al piano, Paul Chambers al contrabbasso e Roy Haynes alla batteria.