In religioso ascolto (Made in Japan #12)

Tanti musicisti degli anni sessanta andarono in India (due nomi per tutti, Beatles e Bob Dylan) o in Nordafrica (Rolling Stones) in cerca di ispirazione e, spesso e volentieri, sostanze psicotrope su cui sorvoliamo. In altri paesi c’era già una tradizione millenaria cui attingere e incorporare nella propria musica. Nel 1970 il supergruppo People, messo su dalla casa discografica A&R e capitanato dal chitarrista Kimio Mizutani, registra CeremonyBuddha meet rock. Al rock di matrice anglosassone si sovrappongono in maniera molto naturale i suoni cerimoniali buddisti. Un esperimento nato per fare cassa ma per una volta anche qualitativamente valido.

La via del guerriero (Made in Japan #11)

Un sicario afroamericano dedito all’allevamento di piccioni e alla lettura dell’hagakure (il codice di comportamento dei samurai) è al soldo della malavita di origine italiana. Da presupposti così bislacchi prende il via Ghost dog, un bel film di Jim Jarmusch, uscito nel 1999 e con protagonista Forest Whitaker.

Il film è sorretto dall’eccellente colonna sonora curata da RZA dei Wu Tang Clan, il collettivo rap newyorkese innamorato dei film di arti marziali. Disco quindi americano ma imbevuto della cultura e dell’etica del Sol Levante.

Modernariato (Made  in Japan #10)

In tanti cominciarono a rovistare tra i dischi degli anni sessanta di library, lounge, exotica quando i più pratici compact-disc soppiantarono i vinili. Vinili che finivano nei mercatini dell’usato con le loro copertine umide e logore, i loro graffi e imbarcamenti. 

Una dematerializzazione sfacciata del supporto che sarebbe culminata nell’ectoplasmatico mp3. Ma anche la scoperta di una miniera d’oro per chi cercava brani da campionare e fare taglia e cuci di lacerti sonori. 

I nuovi apprendisti stregoni proliferarono dando vita a tutto un sottobosco di generi. Dalle nostre parti si cominciò a parlare di modernariato che è forse l’etichetta che preferisco. E nel calderone del modernariato ci sta bene il giapponese Tomoyuki Tanaka che, sotto il moniker Fantastic Plastic Machine, prepara i suoi cocktail sonori nonostante non abbia ripetuto i successi del fortunato esordio di Dear Mr. Salesman (1997),con alla voce Maki Nomiya dei Pizzicato Five e che gli valse la partecipazione al Coechella Festival di quell’anno.

Nudi e crudi (Mare in Japan #9)

Un disco fatto essenzialmente di cover in genere rischia di essere presto dimenticato o, al limite, di essere ricordato solo per la copertina. Nel caso di Anywhere dei Flower Travellin’ Band la copertina è da urlo con i componenti della band in veste di biker ma senza vestimento alcuno. Ma anche il disco è memorabile: quattro lunghe cover, di Black Sabbath, Animals, King Crimson, Muddy Waters eseguite al fulmicotone e capaci di tenere botta agli originali. Ascoltare per credere.

L’alieno che reinventò il rock (Made in Japan #8)

Holger Czukay e Irmin Schmidt erano allievi di Stockhausen a Colonia quando decisero di formare un gruppo rock reclutando Michael Karoly e Jaki Liebezeit. Il gruppo, inizialmente chiamato Inner Space Production, diventò Can con l’arrivo del cantante Malcolm Mooney.

Gruppo dalla tecnica mostruosa ma ancora dentro gli schemi i Can trovarono, per sostituire Mooney, l’alieno Damo Suzuki.

Varie leggende circolano su come avvenne l’incontro tra il gruppo e il cantante giapponese che da anni girovagava per le comuni hippie d’Europa sostenendosi come artista di strada.

Sta di fatto che la voce di Damo segnò i capolavori del gruppo Ege Bamyasi e Tago Mago vertice assoluto del krautrock e della musica tutta.

Lo scheletro del blues (Made in Japan #7)

Ecco il disco gemello di Debon dei Brast Burn: Alomoni 1985 dei Karuna Khyal. Due lunghi collage sonori su scheletri blues laddove il gemello era più legato alla psichedelia. Stesse menti dietro i due progetti? Difficile dirlo visto l’aura di mistero che circonda tanti musicisti giapponesi.

Cuore di pietra (Made in Japan #6)

La sanukite è una roccia vulcanica. La velocità del suono nella sanukite è di circa sei chilometri al secondo. Prima che musicisti come Stomu Yamashta, percussionista ed enfant prodige nipponico, e Lionel Hampton, eccezionale vibrafonista jazz, scoprissero le qualità sonore della sanukite ci avevano pensato già i monaci buddisti ad utilizzare la sanukite nei templi per estrarre suoni durante le funzioni.

“Lo strumento parlava da solo. Era un universo in sé. E io dovevo essere e sentirmi parte di quell’universo. Questo più grande Sé, universale, che noi chiamiamo dai-ga, doveva incorporarmi. E quando sono diventato consapevole dell’esistenza di questo grande Sé, solo allora ho fatto esperienza del vuoto, del silenzio: sono diventato davvero parte del cosmo”

Panni sporchi (Made in Japan #5)

Sulle mani lordate di sangue di Keiji Haino si coagulano i grumi sonori di un delitto efferato che si ripete continuamente in una discografia sterminata e incerta fatta per lo più di pessime registrazioni live. Una delle catastrofi più imponenti e clamorose è il primo live a nome Fushitsusha, pubblicato nel 1989 ma probabilmente risalente al 1978. Un massacro sonico di quasi cento minuti sul corpo del blues e della psichedelia degli anni sessanta. Scommetto che a Jimi Hendrix sarebbe tanto piaciuto!

La new wave possibile (Made in Japan #4)

I Totsuzen Danball sono un duo, formato dal batterista e cantante Eiichi Tsutaki e dal chitarrista Syunji Tsutaki, che vanta collaborazioni con musicisti del calibro di Fred Frith e Lol Coxhill. Il loro disco Naritatsukana? / Can I? del 1981 è un gioiellino di musica new wave / art-rock. Straniante nella voce e nelle ritmiche continuamente spezzate con una fantastica cover dell’arcinota Ragazza di Ipanema di Vinicius de Moraes e Antonio Carlos Jobim, forse il più celebre brano al mondo di bossa nova. Disco di difficile reperibilità come quasi tutte le produzioni nipponiche ma assolutamente da ascoltare.

La terra del mistero (Made in Japan #3)

Un’aura di mistero circonda molti album di culto nipponici: quando sono stati registrati? Chi erano i musicisti? Chi li ha messi in circolo?

Uno di questi carneadi è fa parte di due LP editi dall’etichetta Voice Records (probabilmente un negozio di dischi di Tokyo). Il primo è Debon dei Brast Burn licenziato nel 1974 oppure nel 1975, l’altro è Alomoni 1985 dei Karuna Khyal. Molto simili nei suoni c’è chi sospetta che dietro ci siano le stesse menti (deviate ovviamente).

Due lunghi flussi sonori che coprono le due facciate del vinile tra psichedelia, musica tradizionale, elettronica.