Nonne elettriche (rumore rosa #1)

In musica la parità di genere è lungi dall’essere raggiunta. E se in ambito rock la percentuale rosa rimane comunque miserella guardando indietro del tempo diventa ancora più difficile trovare presenze femminili: pochissime ma dalle storie che valgono la pena di essere raccontate. Come quella della danese Else Marie Pade.

Nata nel 1924 , visse sulla sua pelle i tremendi giorni della seconda guerra mondiale: fece parte della resistenza nella sua Danimarca occupata dai nazisti distribuendo giornali illegali e sabotando le linee telefoniche nell’attesa di uno sbarco alleato che avvenne invece in Francia e una volta catturata dalla Gestapo fu detenuta nel campo di concentramento di Frøslev. Raccontò che fu durante il periodo di prigionia che decise di dedicarsi completamente alla musica. Nel dopoguerra ci provò con il piano poi nel 1952 sentì alla radio danese un programma sulla musica di Pierre Schaeffer: folgorata, riuscì a contattare il compositore e divenne sua collaboratrice al GRMC, il gruppo di ricerca di musica concreta della RTF, la radio francese. Nel ’58 la visita all’Expo di Bruxelles le suggerì la creazione di Syv Cirkler: era l’Expo dell’Atomium e soprattutto di quel padiglione Philips progettato da Le Corbusier e  da Iannis Xenakis (architetto nonché musicista d’avanguardia) le cui cavernose pareti iperboloidi – era stato costruito pensando alla forma di uno stomaco – facevano da cassa di risonanza alle note del Poème Eléctronique di Edgar Varese e di Concret PH dello stesso Xenakis. Negli anni seguenti la Pade continuò il suo percorso seguendo i lavori di Ligeti, Stockhausen, Boulez e lavorando per la radio danese ma dovrà aspettare gli anni duemila, quando sarà scoperta da giovani musicisti elettronici come Jakob Kierkegaard per guadagnarsi una piccola ma meritata visibilità e togliersi lo sfizio di pubblicare un disco a ottantanove anni!

Questione di punteggiatura

Tanto tempo fa  (ma proprio tanto tanto tempo fa) ascoltai gli Ultravox: non solleticarono il mio orecchio e finirono nel dimenticatoio. Solo molto tempo dopo scoprii che avevo sentito il gruppo sbagliato: prima del noioso synth-pop degli Ultravox di Midge Ure c’erano stati gli strepitosi Ultravox!, con quel punto esclamativo che non è il commento dell’ampolloso scrivente ma parte integrante della denominazione sociale del gruppo allora capitanato da John Foxx e che omaggiava gli imprescindibili tedeschi Neu! di Michael Rother  e Klaus Dinger.

Gli Ultravox! durarono lo spazio di due ottimi dischi prima di perdere insieme al punto esclamativo anche John Foxx e l’aura magica degli esordi. Il primo album, omonimo, prodotto da Brian Eno un attimo prima di fare armi e bagagli in direzione di Berlino in compagnia di Robert Fripp e David Bowie e il secondo, Ha! Ha! Ha!, prodotto da Steve Lillywhite già coéquipier di Eno nella produzione del primo LP, sono un riuscitissimo impasto di glam-rock, punk ed elettronica.

 

Suoni in gabbia

Quaranta minuti di canti di uccelli. All’inizio ho pensato alle musicassette che mio nonno, una volta rimasto vedovo e cominciato a peregrinare tra figli e nipoti sparsi per l’Italia, si portava dietro. Seduto, il mangiacassette in grembo, gli occhi socchiusi andava a riascoltarsi il canto dei suoi cardellini che saltellavano nelle anguste gabbiole.

All’inizio pensavo che l’album che stavo ascoltando, del compositore d’avanguardia Walter Marchetti , fosse una semplice registrazione d’ambiente. Invece  poi ho scoperto che non si tratta di uccelli ma di richiami per la caccia. Gli esecutori umani della strana orchestra si muovono seguendo la rigorosa partitura con i loro richiami, ora il colombaccio, ora la ghiandaia, quattro passi a destra, cinque a sinistra a ricreare l’artificiale e impossibile voliera.

L’opera fu rappresentata per la prima volta nel dicembre del 1965 e registrata in studio solo nove anni dopo per la coraggiosa etichetta Cramps di Gianni Sassi nel 1975 per l’ostica collana Nova Musicha che raccoglieva le proposte più estreme della casa discografica celebre per aver lanciato gli Area di Demetrio Stratos. “La caccia (da Arpocrate seduto sul loto)” è certamente tra i titoli più singolari del lotto.

 

 

Dark Orange

La prima volta che sono stato in Provenza puntai dritto ad Orange. Era marzo, il mistral rendeva tersissimo il cielo e la luce dominava il paesaggio nonostante il freddo. Difficile nella mia testa associare alla calma e soleggiata Orange quel  concerto dei Cure tante volte ascoltato nella logora musicassetta.

E invece proprio qui, nello splendido, anche se quasi completamente ricostruito teatro romano (nell’800 sfrattarono, come ad Arles e in tanti altri posti le decine di famiglie che ci vivevano dentro per riportarlo all’antica fisionomia ) nell’agosto del 1986 si tenne il concerto immortalato nel film ‘The Cure in Orange’.
Dopo aver fatto il soundcheck con una versione di ‘Set the controls for the heart of the sun’ dei Pink Floyd (echi del concerto tra le rovine di Pompei?) e la gag con Simon Gallup che toglie la parrucca a Robert Smith svelandone un’inconsueta corta capigliatura una scaletta che mescola il dark più ortodosso dei primi album alle prove più pop e ballabili dei non sempre irreprensibili dischi successivi. Film, che uscito all’epoca in VHS, per qualche misterioso motivo, in quest’epoca dove si raschia il barile con versioni deluxe, rimasterizzazioni, scarti di studio e similia, non è mai stato riedito in DVD.

Lasciate il gatto nella sua scatola

Heisenberg non è un Cristo buono per tutti. E la cosa più seria che si può dire parafrasando Schroedinger è che non si può dire se la classica scatola di latta rotonda contiene i biscotti danesi al burro oppure ago, filo, cotone e qualche bottone spaiato finché non la si è aperta. E last but not least sapere che E=mc2 è l’equazione di Einstein non presuppone che si possa relativizzare questo e quello a piacimento.

I testi di divulgazione scientifica (o presunti) infestano le librerie e mai che parlassero di fisica classica: ha troppo poco appeal il rigore della fisica ottocentesca. Le difficoltà concettuali e i paradossi della fisica moderna consentono invece a troppi cialtroni di sentirsi autorizzati a parlare di fisica e far passare come cosa scientifica le peggiori asinate. E la tecnologia non aiuta a salvaguardare i saperi ma solo a intorbidire le acque con mille rivoli tossici.

Così devo scontrarmi con chi tira in ballo il mio Giordano Bruno e cerca di farmi passare per novello inquisitore nei confronti di tal Masaru Emoto, nipponico fortunatamente deceduto da qualche anno e quindi impossibilitato a dire ulteriori minchiate. I cristalli di ghiaccio, secondo i miei interlocutori, risponderebbero in maniera diversa se sollecitati con belle parole digitate su un telefono cellulare. Questioni di frequenze dicono, bontà loro che approfittano del fatto che non posso condannarli al rogo. E rimango col mio furore sordo ad alto volume e bassissime frequenze sulle note indeterminate di un altro Heisenberg, moniker estemporaneo del finlandese Sasu Ripatti alias Vladislav Delay in compagnia di Max Loderbauer (Moritz von Oswald Trio).

Gospel per Stalin

Un coro gospel americano che inneggia a Stalin: è successo davvero. Anno  1943. Il mondo in guerra. Bisognava scongiurare la minaccia nazista a tutti i costi e non si poteva andare tanto per il sottile nella scelta dei propri alleati foss’anche il dittatore georgiano. Nacque in quei giorni Stalin wasn’t stallin’, coro a cappella dei Golden Gate Jubilee Quartet, dove si tessono le lodi di Stalin.

“Stalin wasn’t stallin’ / When he told the beast of Berlin / That they’d never rest contented / Til they had driven him from the land / So he called the Yanks and English / And proceeded to extinguish / The Fuhrer and his vermin / This is how it all began
Il brano  fu ripreso da Robert Wyatt a inizio degli anni ’80 nel periodo di maggior coinvolgimento politico del musicista inglese, un impegno forte e sincero seppur di minore spessore artistico rispetto al resto della sua produzione.  La cover del Golden Gate Jubilee Quartet fu prima edita su singolo e poi nella raccolta ‘Nothing can stop us’ dove l’unico inedito è la splendida ‘Born again cretin‘.

Dulli e pupe

Nuovo disco in uscita per gli Afghan Whigs e come sempre capita per le band che ho amato negli anni novanta mi assale il timore che questo improvviso ritorno possa deludermi. Nell’attesa godiamoci il passato.

Inseriti a forza nel carrozzone del grunge solo perché avevano cominciato a incidere con la SubPOP il gruppo di Greg Dulli non è mai riuscito ad emergere come avrebbe pure meritato per quel singolarissimo rock morboso e malsano iniettato di soul e di Motown. Testi intrisi di sesso, droga e morte e ritmiche lussureggianti concentrati soprattutto nei due album ‘Congregation’ (1992, splendida copertina, su fondo rosso un neonato bianco tra le braccia di una donna nera, evidente richiamo alle radici musicali del rock) e ‘Gentlemen’ (1993). Fu il video di Debonair tratto da quest’ultimo disco a farmeli conoscere e a convincermi a comprare il CD che sulle prime mi deluse: ben lontana era la loro musica dal grunge imperante di allora. Col tempo ho poi imparato ad amarli visceralmente come viscerale è sempre stato il cantato di Dulli diventato noto alle nostre latitudini anche per le collaborazioni con gli Afterhours di Manuel Agnelli e in tandem con Mark Lanegan nei Gutter Twins.

I decervellati

Ho letto con gran piacere ‘Alfred Jarry. Una vita patafisica’ di Alistair Brotchie edito da Johan & Levi. Così densa di episodi è la biografia di Jarry al punto che l’uomo confinato in una stanza minuscola con una bicicletta da corsa e una pistola finisce per oscurare le opere del geniale inventore della patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie. E tra le soluzioni trovate dallo scrittore bretone c’è da menzionare sicuramente la macchina per il  decervellamento, complicata macchina rotatoria per estrapolare la materia grigia del condannato di turno. Nella ‘Chanson du decervelage’ cantata in Ubu Roi una famigliola va a vedere tra schizzi di sangue e pezzi di cervello che volano per l’aria la macchina in azione. Piacciono  le esecuzioni capitali. E c’è da chiedersi a chi manchi il cervello, al decapitando o allo spettatore.

La canzone fu ripresa e tradotta da Vinicio Capossela nel ’93 per lo spettacolo teatrale ‘Pop e Rebelot’ di Paolo Rossi poi  incisa dallo stesso comico milanese nel ’94 e inclusa in ‘Hammamet e altre storie’ prima di trovare la versione definitiva nel 2000 tra le ‘Canzoni a manovella’ di Capossela.

La scoperta dell’acqua calda

L’intento di chi scrive è principalmente quello di percorrere sentieri meno battuti e dare visibilità a realtà musicali meno note. Mi rendo conto che scrivere di un disco ritenuto praticamente all’unanimità tra quelli fondamentali della storia del jazz equivale a snocciolare i più triti luoghi comuni: dal non ci sono più le mezze stagioni al qui era tutta campagna fino al si stava meglio quando si stava peggio.

Evito di scrivere sciocchezze e dico solo che Kind of Blue è per me un’aspirina che fa bene a testa e cuore.  Per i pochi che non hanno ancora ascoltato il sestetto stellare di Miles Davis – al servizio del geniale trombettista ci sono John Coltrane, Julian Cannonball Adderley, Bill Evans, Paul Chambers e Jimmy Cobb – è ora di rimediare.

Sonno cattivo

Sonno cattivo e agitato quello degli Sleep alle prese con il loro ultimo incubo: un travaglio compositivo lungo quattro anni e fatto di registrazioni, ripensamenti e contenziosi infiniti con le etichette discografiche che hanno partorito diverse versioni dell’album più o meno autorizzate.  Conosciuto come Dopesmoker oppure Jerusalem il disco è costituito in pratica da un’unica  colata lavica della durata di circa un’ora che avanza con la lentezza inesorabile di un cingolato. Zenit e punto di non ritorno per il trio californiano di Al Cisneros, basso e voce, Chris Hakius,  batteria e Matt Pike, chitarra.