Tutta questa scienza che non capisco

La corsa allo spazio che caratterizzò gli anni della guerra fredda, culminando con la conquista della Luna da parte degli americani, colpì l’immaginario collettivo ispirando cinema, musica e letteratura. Nacquero lo space-rock degli Hawkwind e la musica cosmica teutonica e si avviarono vere e proprie saghe come quelle del pianeta Gong dell’omonima band di Daevid Allen e del pianeta Kobaia dei Magma di Christian Vander con tanto di testi in kobaiano.  Ma ovviamente la saga più famosa fu quella di Ziggy Stardust e gli Spiders from Mars, l’incarnazione più celebre di David Bowie che però aveva già trattato i temi spaziali con Space Oddity tre anni prima, in quel fatidico 1969 della passeggiata di Armstrong sul suolo lunare.

Orgoglioso di essere arrivato prima di altri, ma non  primo in assoluto, David non gradì l’invasione di campo di Elton John, entrato in classifica con Rocket Man un attimo prima dell’uscita della sua Starman e che riteneva una scopiazzatura di Space Oddity. A corroborare i suoi sospetti c’era la presenza dietro al pezzo di Elton John del produttore Gus Dudgeon, lo stesso che aveva lavorato con Bowie a Space Oddity.

Rocket Man, una canzone il cui tema è in fondo quello dell’emigrante che lascia la famiglia e va a lavorare sulla fredda Marte, finì per aprire le porte del successo ad un Elton John che adottò proprio in quel periodo e ancora una volta sulle orme di Bowie, l’estetica glam-rock e quel look stravagante che diventerà il suo tratto distintivo.

Alberi, erba e pietre

I Träd, Gräs & Stenar, letteralmente alberi, erba e pietre sono l’ultima evoluzione dei Pärson Sound poi diventati con la perdita di un paio di elementi prima International Harvester, poi Harvester, fino all’ultima ragione sociale con cui hanno continuato ad esibirsi fino in tempi recenti. Fanno parte di quella interessantissima scena musicale svedese nota come progg, più vicina alla psichedelia che al quasi omonimo prog-rock.  Il brano che preferisco è la lunga jam di Amithaba, registrata nel 1972 e comparsa come bonus track in una recente ristampa del loro secondo LP Djungelns Lag.

 

La gioia è contagiosa

Ascolto i Samla Mammas Manna, con i loro intermezzi circensi, e mi saltano in mente i saltimbanchi di Ingmar Bergman. A parte la comunanza geografica, nella musica dei Samla Mammas Manna è presente la stessa dicotomia tra razionale e irrazionale, tra geometria e allegro e scanzonato disordine del regista svedese.

I Samla Mammas Manna nascono nel 1965 quando Lars Hollmer adatta il pollaio della madre a studio di registrazione (non a caso battezzato ‘The chicken house‘). Il primo disco, omonimo, è del 1971. Il secondo, Maltid due anni dopo. Poi la partecipazione al Rock in Opposition permette ai nostri un po’ di visibilità al di fuori dei patrii confini.

Nel ’77 dopo aver cambiato chitarrista diventano Zamla Mammaz Manna proseguendo poi nel semianonimato fin quasi ai giorni nostri senza mai venire meno all’invito fatto agli ascoltatori tra le note di copertina di Maltid: “Remember: joy is contagious“.

Mediocrity Report

Quando arrivarono a decidere un nome per la band, pensarono a quei gruppi che vengono reclutati in fretta e furia per sostituirne qualcun altro. Così scartato un primo The Substitutes, scelsero The Replacements. E di band da rimpiazzare, portando aria fresca al panorama hardcore, ce n’erano fin troppe. Ma la musica dei Replacements, volutamente scanzonata era solo un modo per nascondere le paure e le insicurezze del cantante Paul Westerberg: insomma un far finta di non prendersi mai sul serio.

Nel furgone, durante il tour di Hootenanny, il rituale era questo: mettevano le mani una sull’altra e Paul diceva: “Dove stiamo andando?” e la band rispondeva: “Verso la mediocrità!”, “Quale mediocrità?”, “L’assolutà mediocrità!”

Nel 1984 dopo il grande successo dell’album Let it be un critico del ‘Village Voice’ scriveva: “sono un crogiolo di grandi speranze e di sentimenti modesti, di grugniti da gatti selvatici e di noia, pieni di desideri che cercano di tenere a distanza con un bastone, senza riuscirci”.
Non riuscirono a tenersi lontano soprattutto da alcool (in cui avevano sempre sguazzato) e droghe che dominarono la parabola discendente del gruppo seguendo il solito canovaccio, purtoppo questo sì, mediocre e risaputo del sex, drugs & rock’n’roll.

Fine dei giochi

Di verde nella vita di Peter Green, chitarrista, c’è il periodo con i Bluesbreakers di John Mayall e quello con i Fleetwood Mac. Dopo il lungo tunnel dell’ LSD e i conseguenti problemi psichici che lo porteranno alla schizofrenia spazzandolo via dalle scene musicali (anche se nel frattempo circoleranno le leggende più disparate che narreranno di crisi mistiche, fughe in Israele, improbabili occupazioni per sbarcare il lunario tra cui quelli di barista, infermiere e perfino becchino!). Ritornerà a imbracciare la chitarra negli anni ottanta spesso come sessionman talvolta come solista ma senza mai assolutamente graffiare.
Continua invece a mostrare le unghie e le zanne, come il felino in copertina l’ultima incisione prima del ritiro dalle scene: inciso in una sola notte, “The end of the game” rimane una scheggia accecante di blues strumentale sospeso tra jazz e psichedelia dove la sua chitarra rivaleggia con il piano di Zoot Money (già con Centipede e Animals) e il basso di Alex Dmochowski (dalle Mothers di Frank Zappa).

La precarietà è un cuneo nelle ossa (Dischi da Ultima Spiaggia #2)

“Quanto dura il mio minuto se devo fare settantacinque secondi in sessanta?”
La Rapsodia meccanica del calabrese Francesco Currà, operaio dell’Ansaldo di Genova, vede la luce nel dicembre del ’76 ovvero prima ancora che i Throbbing Gristle diffondessero il verbo della musica industriale (che in realtà era già stata inventata dai futuristi, dagli intonarumori di Luigi Russolo fino alla ‘Sinfonia delle sirene’, una composizione per masse di lavoratori, cannoni, idroplani e tutte le sirene delle fabbriche della città di Baku che il russo Arseny Avraamov mise in scena 7 novembre del ’22).
Nei roventi anni di piombo Currà mette in scena tutta l’alienazione del lavoro in fabbrica e i suoi ritmi omicidi declamando i suoi testi su un sottofondo di rumori tirati fuori direttamente dai suoi macchinari durante le lunghe ore di lavoro alla fresa. Il disco viene poi completato dai patterns di Roberto Colombo che, molto prima di comporre la sigla della soap Beautiful, aveva da poco licenziato per la comune etichetta Ultima Spiaggia l’ottimo Sfogatevi bestie, disco di jazz-rock entrato a far parte della famigerata Nurse With Wound list.

Butterfly effect (rumore rosa #3)

Con effetto farfalla si indica quel processo per il quale piccole variazioni delle condizioni iniziali portano dopo un certo tempo le stesse equazioni differenziali a soluzioni divergenti. Sembra figlia del butterfly effect questo maltrattamento dell’opera di Puccini da parte di Pauline Oliveros, una delle pioniere della musica elettronica scomparsa lo scorso anno.

Nata in Texas nel  1932, spesso e volentieri effigiata con la sua fisarmonica, è stata soprattutto compositrice e teorica musicale. Fondatrice negli anni sessanta del San Francisco Tape Center e poi insegnante universitaria giunse alla definizione di coscienza sonora, teoria in cui confluivano elementi tipici delle filosofie orientali mutuate dalla sua passione per il karate di cui era cintura nera. Caverne, cattedrali, cisterne abbandonate divennero i luoghi ideali dove far riverberare incontri e scontri di dense masse sonore le cui piccole variazioni sono capaci di generare quell’effetto farfalla che il meteorologo Edward Lorenz probabilmente rubò a un racconto di Ray Bradbury, il celebre scrittore di fantascienza autore di Fahrenheit 451.

Vacche magre (ovvero Khun Narin è meglio dei Pink Floyd)

Ho riascoltato il famoso disco della mucca, una delle geniali copertine dello studio Hipgnosis: la semplice foto della frisona Lulubelle III  che pascola nella verde campagna inglese senza alcuna indicazione del nome del gruppo o del titolo dell’album. Nella sterminata apologetica dei Pink Floyd, si narra che i funzionari della EMI chiesero al fotografo Storm Thorgerson se il suo intento fosse quello di far fallire la loro casa discografica.

Il primo lato del vinile si compone di una lunga suite orchestrale, Atom Heart Mother, arrangiata dal compositore Ron Geesin mentre nel secondo lato trovano posto tre delicate canzoni folk equamente divise tra Waters, Gilmour e Wright e la lunga Alan’s Psychedelic Breakfast.

Ma il folk e la psichedelia in questo disco finiscono per apparire artefatti e troppo cerebrali rispetto a quella naif di Khun Narin. Sissignori, Khun Narin! Non avete la più pallida idea di chi sia Khun Narin? Khun Narin suona un phin elettrificato, il phin è uno strumento tipico della Thailandia e del Laos. Attorno a lui ruota un ensemble spesso formato da vecchi e bambini che si esibivano in occasione di feste e processioni nella regione del Phetchabun in lunghe jam improvvisate.

Qualche anno fa un produttore  americano scovò su youtube una serie di video – in uno c’è una acidissima Zombie dei Cranberries! – e da lì sono nati due album, il primo strepitoso Electric Phin Band e il secondo intitolato semplicemente II. Ascoltare per credere.

La musica del quarto mondo

Jon Hassell nasce nel 1937 a Memphis nel Tennessee, cresce con la musica afro-americana di Stan Kenton e Miles Davis, poi si innamora di Stockhausen. Va in Germania, a Colonia, a seguire i corsi del maestro. Holger Czukay e Irmin Schmidt che da lì a poco fonderanno i futuri Can sono i suoi compagni di corso. Lo vorrebbero con loro ma Jon declina l’invito dichiarandosi poco interessato al rock.  E infatti, tornato in patria, prende parte alle registrazioni di In C, il capolavoro di Terry Riley e ad alcuni dischi di LaMonte Young. Inevitabile, dopo aver collaborato con questi due padri del minimalismo, proseguire nello studio della musica indiana e così nel 1972 comincia l’apprendistato con il Pandit Pran Nath. E’ qui che il suono della tromba di Hassell completa la propria metamorfosi trasformandosi nel suono di una conchiglia.

E al culmine di questa metamorfosi Hassell è pronto per quella ‘fourth world music’ di cui si innamoreranno Brian Eno e David Byrne e porterà nel 1981 al fantastico My Life in the Bush of Ghosts (per lo scorno di Jon che a quel disco avrebbe dovuto partecipare).

Ma torniamo indietro a quello che invece è il capolavoro di Hassell e che esce nel 1977: Vernal Equinox. La tromba di Hassell viene trattata elettronicamente e si insinua sul tappeto di percussioni ordite dal brasiliano Nana Vasconcelos e tra sibili di gelidi sintetizzatori.

Raro Ben

Piccola gemma di jazz-rock uscita nel 1971 quella dei Ben. In copertina un naso che cola come un rubinetto male avvitato. Musica che cola a fiotti copiosi lungo le quattro tracce in cui si cimentano i quattro musicisti (sax, organo, chitarra e batteria). Disco purtroppo ricordato più per le quotazioni abnormi sul mercato dei vinili, l’originale LP è tra i più rari del catalogo della Vertigo e quindi tra i più costosi, che per la musica: molti recensori infatti lo bollano come tra le cose peggiori licenziate dalla label dall’inconfondibile spirale. Cosa in parte vera, ma più per merito del resto della scuderia – Black Sabbath, Gentle Giant, Patto, Nucleus e compagnia cantante – che per demeriti propri.