Il cugino De Andrade

“Una lanterna d’albergo. Il mare pieno zeppo di conchiglie.[..] L’automobile tractracca per strada. / Il treno va guardando il Brasile. / Il Brasile è una Repubblica Federale piena di alberi e di gente che dice addio. / Poi tutti muoiono.”

Manifesto antropofago, 1928. Oswald De Andrade definisce l’arte brasiliana cannibale, capace di fagocitare le tante culture da cui ha preso vita il Brasile. Ha già scritto le Memorie sentimentali di Giovanni Miramare e  da lì a poco realizzerà il Serafim Ponte Grande un vero e proprio puzzle dove il lettore deve ricostruire il romanzo (?) attraverso la discontinuità dei tanti frammenti che formano il libro.

“Il paesaggio di questa capitale putrisce. Mi presento al lettore. Pelotarista. Personaggio dietro una vetrata. Impermeabile e galoches. Certi militari hanno cambiato la mia vita. Gloria agli uomini di fede! Là fuori, quando asciugherà la pioggia, ci sarà il sole.”

Serafim attraversa la rivoluzione paulista del 1924 e tiene un cannone nel cortile. Invito che Oswald De Andrade continuerà a ripetere ai proletari brasiliani dalle pagine del giornale O homen livre negli anni precedenti alla rivoluzione (ancora un’altra!) del 1937. Personaggio vitalissimo, impegnato e anticonformista De Andrade, così presentato da Giuseppe Ungaretti nella prefazione alle Memorie sentimentali:

“Non so quale fosse la sposa che aveva impalmato in quei giorni, settima, undicesima oppure ventunesima. Non ebbero più donne Abramo, né Matusalemme né Noè messi insieme, che devono averne godute moltitudini per popolare o ripopolare questo pianetaccio, a differenza del povero Adamo che combinò tutto con la sola povera Eva, guai o miracoli che fossero, dipende dai pareri. Tra la moglie bambina e un quadro recente di Picasso che si baloccava tra le braccia, raccontava storie dell’altro mondo, un po’ come fosse il Padre Eterno o il suo rivale da girarrosto. Aveva vissuto a Parigi, nababbo, non rastaqueroe vi aveva scoperto tutto, annusato tutte le puzze e tutti gli olezzi, fino al collo ficcato in tutte le trappole, uscendone indenne e bobo da bravo illusionista. Non aveva riportato in Brasile, sposa, come succedeva allora al sudamericano pingue di moneta quanto di corpo, la femmina che l’aveva adescato chissà in quale lupanare di Lutezia, carnosa, di connotati correggeschi già stuzzicante di libidine dal fugace adocchio.”

Fabrizio De André omaggió il suo quasi omonimo paulista nel disco Le Nuvole, album ricchissimo di spunti , sin dal titolo preso in prestito da Aristofane. Ne La domenica delle salme c’è di tutto: c’è come detto De Andrade, c’è la caduta del muro di Berlino, ci sono le BR di Renato Curcio e la gamba amputata di Piero Maroncelli (compagno di Silvio Pellico al famigerato Spielberg). Una canzone che non esaurisce mai la sua carica di rimandi e offre sempre nuove possibili chiavi di lettura.

La geografia è destino

“So che la geografia è destino, la storia non si fa, signorile, a tavolino” (Giovanni Lindo Ferretti da Orfani e vedove, P.G.R.)

Il Kurdistan è una nazione che non ha confini che la separano da altri stati ma viene attraversata, come da devastanti cicatrici, da quelli di Siria, Turchia, Iran e Iraq che si sono visti assegnare dalla storia, mai galantuoma, fette mal ritagliate di quel vasto territorio in cui i curdi non sono padroni della loro casa ma ospiti mal sopportati.

Da profanissimo di musica tradizionale mi sono imbattuto nell’ascolto di un intenso concerto tenuto a Teheran dal musicista iraniano Kayhan Kalhor, ma di origine curda, Khayan Kalhor in duo con il turco Erdal Erzincan. Il primo suona il tradizionale kamancheh, il secondo il baglama. La musica persiana e turca come leva per abbattere i confini.

Colori meno noti (Caleidoscopi #3)

Un gran bel disco dai suoni garage e psichedelici per il terzo, e infinitamente meno noto, caleidoscopio, dopo quelli americani e inglesi. I Kaleidoscope di Colours provenivano dalla Repubblica Dominicana e comprendevano elementi da Porto Rico e Spagna.  Furono lanciati sul mercato messicano e quindi ci si riferisce a loro come Kaleidoscope (Mex).

 

Un tuffo a ieri (Caleidoscopi #1)

La tenue Let the world wash in degli I Luv Wight è,  o meglio doveva essere, l’inno del festival di Wight del 1970. Nelle intenzioni degli organizzatori avrebbe inframmezzato le esibizioni dei vari gruppi nei cinque giorni della manifestazione fino al disvelamento finale dell’identità dei fantomatici autori: i Fairfield Parlour di Peter Daltrey ed Eddie Pumer. Potenzialmente una bella mossa per risollevare le sorti di un gruppo perseguitato da una sfortuna sfacciata. Ma neppure quella volta le cose non girarono per il verso giusto e il singolo rimase in un cassetto.

Da quel punto in poi anche la storia dei Fairfield Parlour fu destinata a chiudersi: con un album doppio pronto e nessuna casa discografica disposto a pubblicarlo, nel 1972, i nostri dichiararono la resa.
Una resa arrivata per frustrazione dopo che già in precedenza, quando si chiamavano Kaleidoscope, erano stati costretti a lasciare l’etichetta Fontana non capace di promuoverli come avrebbero meritato: i loro due unici LP, Tangerine Dream e Faintly Blowing sono, come da inflazionata ragione sociale del gruppo, due splendidi esempi di luccicante psichedelia british.

La new wave compatta e minimale

Difficile emergere artisticamente a Tel Aviv. Così tre ragazzi israeliani muovono verso Amsterdam e riescono a trovare asilo presso l’etichetta belga Crammed che produce, è  il 1981, il loro omonimo esordio. Il gruppo, composto dalla bassista Malka Spigel, il cantante Samy Birnbach e il chitarrista e tastierista Berry Sakharof si distingue nel calderone new wave / post-punk per il sapore mediorientale dei suoni. Ballate da fermi con i Minimal Compact.

 

 

Lenin, Orietta e San Brandano

“E se è vero, com’è vero certamente, / Che c’è stato qualche caso precedente,
Stare dentro è molto meno divertente / Uno non vede mai dov’è / E allora dimmi tu che gusto c’è. / Ma a dorso di balena / Vedi dove vai, / Si fanno incontri che non speravi mai.”

Narra la Navigatio Sancti Brendani, scritta da un anonimo nel X secolo, le peripezie marinaresche di San Brandano, monaco irlandese vissuto quattro secoli addietro, e dei suoi compagni in cerca dell’isola dell’Eden. Non  manca l’incontro con la balena che i monaci scambiano per un’isola e sul cui dorso si fermano a celebrare la Pasqua.

Secondo una credenza popolare russa è  l’intero mondo a poggiare su tre balene. E a questo si riferiva Lenin quando parlava delle tre balene del bolscevismo: le otto ore di lavoro, la confisca delle proprietà terriere e una repubblica democratica. Quello stesso Lenin che un giorno portò come esempio virtuoso le lotte operaie di un piccolo paesino reggiano non incluso nelle mappe. Il paesino si chiamava Cavriago e avrebbe in seguito dato i natali a Orietta Berti.

Nel 1980 Orietta incide per Domenica In la canzone La balena e il cortocircuito spazio-temporale è completo.

L’intonarumori

Cerco di rompere il silenzio ovattato di questo sabato di coprifuoco con gli intonarumori di Luigi Russolo, pittore e musicista futurista che potrebbe giustamente reclamare i diritti di copyright su tanta musica industriale venuta nei decenni a seguire. Largo allora a crepitatori, gorgogliatori, rombatori, ronzatori, scoppiatori, sibilatori, stropicciatori e ululatori.

Degli infiniti eliocentrici mondi

Troppo spesso la mia smania di completista mi porta ad ascoltare intere discografie, con tanto di rarità e scarti più o meno evitabili. Ma di fronte alla messe sterminata di album realizzati da Sun Ra devo dichiararmi sconfitto in partenza e abbandonarmi all’ascolto pescando qua e là  che in fondo ci si azzecca sempre: che si caschi nel jazz più  convenzionale, nel free-jazz o in contesti più sperimentali si casca sempre bene perché  sotto gli abiti spazial-orientaleggianti di quel gran mattacchione, che ha sostenuto per una vita di essere andato su Saturno e con una sicumera tale da finire nel ’71 a tenere un corso di filosofia a Berkeley, si nascondeva un musicista geniale.

Le meraviglie del paese di Alice

La pianista Alice McLeod ha già  un matrimonio fallito alle spalle e una figlia da tirare su da sola quando conosce John Coltrane. Nell’arco di nemmeno cinque anni i due si sposeranno, avranno tre figli, lei lo accompagnerà  al piano quando nel ’66 McCoy Tyner romperà il sodalizio con Trane non condividendo una musica in territori sempre più free.

Quando un cancro al fegato stroncherà nel luglio del ’67 il grande sassofonista Alice saprà comunque portare avanti la sua ricerca musicale, caratterizzata anche dall’impiego, inusuale in ambito jazz, dell’arpa.

Un ottimo esempio è  l’album Ptah, the El Daoud, in compagnia di Pharoah Sanders, Joe Henderson, Ron Carter e Ben Riley.

I piccoli diavoli di Minneapolis

Le riprese di Down by Law (per noi del consunto stivale Daunbailò) avvicinarono quei tre impossibili personaggi che rispondono ai nomi, rigorosamente in ordine alfabetico di Roberto Benigni, John Lurie e Tom Waits. L’anedottica attorno alla pellicola di Jarmusch è  sconfinata e con risvolti, giocoforza visti i protagonisti, grotteschi e le amicizie maturate sincere. Tanto che quando due anni dopo Benigni realizzerà  Il piccolo diavolo non solo  riserverà una parte nel cast a John ma affiderà al fratello Evan Lurie, pianista e suo compagno nei Lounge Lizards. E per completare il cerchio ci sarà alla chitarra Marc Ribot, collaboratore storico di Tom Waits. Una colonna sonora da riscoprire.