La scuola di Athens

L’Università della Georgia ha sede ad Athens, piccola cittadina a un centinaio di chilometri da Atlanta. Il vivace ambiente del college ha visto sul finire degli anni ottanta nascere band importanti come i R.E.M. e i B-52’s ma anche i meno famosi Pylon. I Pylon esordiscono con il singolo Cool/Dub nella primavera del 1980. Nello stesso anno pubblicano il primo LP Gyrate seguito, tre anni dopo, dal secondo e ultimo Chomp. La band si scioglie pochi mesi dopo.

Nel 1985 saranno omaggiati dagli stessi R.E.M. che pubblicano la loro Crazy come B-side del singolo Driver 8.

Quattro grandi punti (esclamativi)

“Our airplane, flies high, and higher / Our airspace, looks right, it’s perfect, from up here / We touch down, we come down, completely, full of fear / They meet us, good people, they’re right here / Their island, their palace, makes us high, and higher / Catania, so full, soulful, gigantic”

Quattro album e due EP condensano la carriera dei June of ’44 da Louisville, Kentucky. Jeff Mueller proveniva dai Rodan, Doug Scharin dai Codeine e già questo basterebbe come (ottima) referenza. Il resto della band era formata da Sean Meadows e Fred Erskine. Alla matrice math-rock degli Slint aggiunsero maggior cromatismo sonoro e gusto per la melodia. Four great points uscito nel 1998 per la Quarterstick resta probabilmente la loro prova migliore ma ci sarebbe veramente l’imbarazzo della scelta.  Dopo un silenzio ultradecennale saranno tra pochi giorni in Italia, paese da loro amato (come testimoniato dalla loro Southeast of Boston su Anahata).

Urbi et Orbi

I primi quattro album dei Talking Heads sono uno più bello dell’altro e non ci si può permettere di non ascoltarli. Ma vale la pena ascoltare, e vedere, anche il concerto che tennero a Roma nel dicembre del 1980 in formazione extralarge: infatti a  coadiuvare i quattro membri fondatori, David Byrne, Tina Weymouth, Jerry Harrison e Chris Frantz c’erano lo strepitoso Adrian Belew, Busta Jones, Bernie Worrell, Dolette McDonald e Steven Scales: i suoni metropolitani della Grande Mela si mescolano a ritmiche di matrice africana.

Un flusso sonoro che è un fiume in piena e tracima funky da ogni dove, fortunatamente immortalato dalle telecamere della RAI.

Senza una terapia

La tesi del dottor Huber era che le malattie psichiche erano pura invenzione della società borghese: bisognava quindi lottare contro ogni forma di terapia e valorizzare la malattia psichica come strumento di lotta di classe. Da queste premesse nacque nel 1970 ad Heidelberg il Sozialistisches Patientenkollektiv (SPK). Il SPK non tardò ad entrare in conflitto con la psichiatria ufficiale con i suoi cinquecento membri messi sotto stretta sorveglianza della polizia. Accusati di essere collusi con la banda criminale Baader-Meinhof e i terroristi della Rote Armee Fraktion furono costretti a sciogliersi dopo l’arresto dello stesso Huber.
La sigla SPK tornerà dieci anni dopo agli antipodi della Germania quando Graeme Revell e Neil Hill, due operatori psichiatrici di Sydney, la useranno per il loro progetto musicale: nell’intento del duo l’elettronica industriale diventa lo strumento d’indagine per l’alienazione urbana e le sue conseguenze psichiche.

Testa e cuore

Dietro le quinte della new wave americana brigarono le migliori menti dell’intellighentia musicale del tempo: Brian Eno, John Cale, Philip Glass. Quest’ultimo, uno dei maestri del minimalismo, nel periodo che intercorre tra le sue Einstein on the beach (1975) e Koyaanisqatsi (1983) si dedicò alla produzione di un gruppo newyorkese: i Polyrock.
Due dischi, Polyrock (1980) e Changing hearts (1981) estremamente creativi dove si sente la mano di Glass nel bilanciare serrati ritmi funky e uno spiccato romanticismo.

L’arte dell’incontro

“Di mattino abbuio / Di giorno attardo / Di sera annotto / Di notte ardo. // Ad ovest morte / Gli vivo contro / Del sud captivo / Mio nord è l’est. // Gli altri computino / Passo per passo / Io muoio ieri // Nasco domani / Vado ov’è spazio / Mio tempo è quando.”

1969. Giuseppe Ungaretti, proprio lui, il poeta, ha 81 anni. Ha conosciuto Vinicius de Moraes nel ’37 quando insegnava letteratura italiana a Sao Paulo. Vinicius de Moraes è un poeta esordiente ma colpisce Ungaretti al punto da spingerlo a tradurne in italiano le opere.
Nel ’69 Vinicius de Moraes, come tanti altri artisti brasiliani è all’estero: in patria c’è una ditttatura militare. Arriva in Italia con il chitarrista Toquinho. I due insieme a Sergio Endrigo e a Giuseppe Ungaretti, che recita alcune poesie, confezionano l’album La vita, amico, è l’arte dell’incontro. L’album prodotto da Sergio Bardotti e arricchito dagli arrangiamenti di Luis Bacalov è uno di quei piccoli dischi che sottovoce sussurrano al cuore e scaldano l’anima.

Due volti di Ginevra

“That is a very unusual song, it’s in a very strange tuning with strange time signatures. It’s about three women that I loved. One of who was Christine Hinton, the girl who got killed who was my girlfriend, and one of who was Joni Mitchell and the other one is somebody that I can’t tell. It might be my best song.” (David Crosby)
Inutile dilungarsi sulle virtù di Crosby Stills & Nash, l’album della famosa copertina con i tre sul divano in ordine inverso alla sigla sociale: storia vuole che quando i tre tentarono di rimediare all’errore, tornando in cerca del divano, scoprirono che non c’era più!
Tra molti episodi memorabili come Marrakech Express o Wooden Ships, la mia preferita resta Guinnevere, frutta del sacco di David Crosby. Di questa canzone si innamorò anche Miles Davis che ne registrò una lunga trasfigurata versione durante le sessions di Bitches Brew. Il brano però rimase inedito fino alla pubblicazione, un paio di decenni dopo, delle intere sessions.

Il jazz dell’apartheid

L’apartheid, il sistema di segregazione razziale che per decenni ha disonorato il Sudafrica non risparmiò neppure la musica. I Blue Notes, formazione jazz che includeva musicisti bianchi e neri, erano costretti a esibirsi in clandestinità. Fu così che molti musicisti come Mongezi Feza e Dudu Pukwana andarono a cercare fortuna in Inghilterra. Tantissime collaborazioni con musicisti jazz e progressive e un paio di dischi a nome Assagai (il primo uscito per la Vertigo nel 1971). A Mongezi Feza, trombettista eclettico e sbarazzino, toccò una fine troppo precoce, nel 1975, a soli trent’anni, per una polmonite mal curata. Aveva da poco collaborato a quei due capolavori che sono Rock Bottom di Robert Wyatt e In Praise of Learning degli Henry Cow. Mongs lasciò in eredità alla musica britannica quella sfrenata energia e gioia di vivere tipica della township music dei ghetti delle metropoli sudafricane.

Vietato prendersi sul serio

Ogni tanto devo riascoltare il primo disco dei Wolfango, un disco che non pretende niente nel suo ostentato e voluto analfabetismo musicale: autentico grado zero, vero sberleffo punk ad ogni pretesa di catalogaziane e/o classificazione e/o giudizio. Il disco uscito nel 1996 per l’etichetta dei C.S.I. è una sequenza di canzoni in cui gli unici strumenti sono un basso distortissimo e mezza batteria suonata nell’occasione da Bruno Dorella (protagonista anche con gli ottimi Ronin, OvO, Bachi da Pietra). Le voci del bassista Marco e della moglie Sofia più il figlioletto rompiscatole che all’epoca imperversava sul palco a rendere ancora più divertente ed esasperante il tutto. Scorie assortite di Nirvana e CCCP su testi demenziali non è dato sapere se di proposito oppure no.

Totentanz

Aggettivi come gotico e teutonico bastano e avanzano per descrivere la musica degli Amon Düül II. Una musica che evoca quel tribalismo nordico pagano e allo stesso tempo allucinato e austero. Come il monito delle tante totentanz, le danze con la morte, che pullulano nelle chiese tedesche.
Il loro primo disco Phallus Dei impone il suo clima orrorifico e luciferino sin dalla splendida copertina: non resta altro lasciarsi sopraffare dalle sue note e partecipare al sabba.