1954. Sadako Sasaki è una bambina che sogna di correre. In seguito a un attacco di vertigini le viene diagnosticata la leucemia. Leucemia provocata dalla pioggia nera, le radiazioni liberate dall’esplosione nucleare sulla città di Hiroshima. Sono passati nove anni dal terribile evento ma gli effetti sono ancora devastanti.
Sadako passa quattordici mesi in ospedale. Costruisce gru di carta. Una antica tradizione dice che un desiderio sarà esaudito a chi riuscirà a costruire mille gru di carta. Sadako si aggrappa a quelle gru di carta per quei quattordici mesi di sofferenza e disperata speranza.
I Mono, gruppo post-rock giapponese, mezzo secolo dopo, nel 2004, chiuderanno l’album Walking cloud and deep red sky, flag fluttered and the sun shined con una delicata dedica alla storia di Sadako, A thousand paper cranes, episodio più malinconico del disco.
La vicenda di Sadako, cui è dedicata una statua nel parco della Pace di Hiroshima, sarà anche raccontata dallo scrittore Karl Bruckner nel libro Il gran sole di Hiroshima.
“this whole country is full of lies / You’re all gonna die and die like flies”
Mississippi Goddam fu presentata per la prima volta al pubblico nel marzo del 1964 alla Carnegie Hall di New York. L’anno prima Nina Simone era stata la prima artista di colore ad esibirvisi. Non come pianista classica, sogno che aveva coltivato da ragazzina, ma come cantante oramai affermata e che aveva incamerato nel suo repertorio le istanze delle lotte per i diritti civili aggiornando tanto il teatro mitteleuropeo di Bertolt Brecht e Kurt Weill quanto la canzone popolare israeliana.
Di fronte ai fatti tragici del ’63, con la fucilata nella schiena all’attivista Medgar Evers e la bomba nella chiesa battista dove perirono quattro ragazzine, Nina Simone scrive l’invettiva di Mississippi Goddam.
A differenza delle dolenti Alabama di John Coltrane e Only A Pawn in Their Game di Bob Dylan, entrambe dedicate agli eventi di quell’anno, le parole di Nina Simone sono accompagnate da una musica allegra e dinamica che rende il testo ancora più suggestivo e diretto.
Cito le parole dell’attivista Dick Gregory dalla bella biografia di Alan Light, What’s happened, Miss Simone? uscito in Italia per Il Saggiatore:
“La franchezza appartiene alla donna. Nonostante tutta la sofferenza vissuta dai neri, nessun uomo nero si azzarderebbe a cantare Mississippi Goddam. Nessun uomo nero direbbe mai quello che dice Billie Holiday sul linciaggio. Non sono state le donne a linciare, sono stati gli uomini, ma sono state le donne a parlarne, e nessuno ha detto loro di farlo. Nessun manager ha detto loro di parlare a quel modo, è qualcosa che hanno dentro.”
E il prezzo da pagare per tanta franchezza sarà salato e renderà ancora più complicata la vita già tormentata sin dall’infanzia della cantante che vedrà ulteriormente incrinato il suo rapporto con il violento marito e manager.
“Un uomo di genio non commette sbagli. I suoi errori sono volontari e sono i portali della scoperta.”
E’ il 16 giugno di 113 anni fa il giorno in cui Leopold Bloom si incammina per le strade di Dublino (e il giorno del primo appuntamento tra James Joyce e la giovane cameriera Nora Barnacle futura musa e moglie dello scrittore irlandese) . Nell’odissea linguistica dell’Ulysses la parola si fa continuamente musica. Una ricerca della musicalità che aveva caratterizzato lo scrittore sin dagli esordi: una delle sue prime raccolte di poesie è intitolata ‘Chamber Music’ e attinge a piene mani alla poesia e alla musica iraniana. In questa raccolta è presente la poesia ‘Golden Hair’ che sarà messa in musica da Syd Barrett. Originariamente pensata per essere inserita nel primo disco dei Pink Floyd trovò posto su disco solo nel 1970 nell’album solista ‘The Madcap Laughs’.
“Per due mesi e mezzo piovve ininterrottamente e noi, chiusi a chiave nelle nostre stanze a Leopoldskron, lavoravamo giorno e notte, l’insonnia (di Glenn Gould!) era ormai diventata per noi uno stato irrevocabile, di notte elaboravamo per conto nostro ciò che Hororowitz ci aveva insegnato durante il giorno. Non mangiavamo quasi nulla e per tutto quel periodo non patimmo dei dolori di schiena che ci avevano tormentato di continuo fintanto che avevamo studiato coi nostri vecchi professori; sotto Horowitz quei dolori di schiena non li sentimmo affatto perché studiavamo con una tale intensità che in ogni caso non avremmo potuto sentirli. Al termine del nostro corso con Horowitz, fu chiaro che Glenn già suonava il pianoforte meglio di Horowitz stesso, ad un tratto avevo avuto l’impressione che Glenn suonasse meglio di Horowitz e, da quel momento in poi, Glenn fu per me il più importante virtuoso del pianoforte di tutto il mondo, per quanti pianisti io abbia sentito da quel momento in poi, nessuno suonava come Glenn, lo stesso Rubinstein, che ho sempre amato, non suonava meglio di lui. Wertheimer ed io eravamo pari quanto a bravura, anche Wertheimer ha detto molte volte che Glenn era il migliore, lo ha detto perfino quando ancora non osavamo dichiarare che era il migliore del secolo. Il ritorno di Glenn in Canada significò veramente per noi la perdita del nostro amico canadese, non pensavamo di rivederlo mai più, era invasato dalla sua arte in una tale maniera da farci supporre che non potesse tirare avanti in quello stato ancora per molto e che in breve tempo sarebbe morto”
Ho scoperto ‘Il soccombente’ di Thomas Bernhard, a teatro pochi anni fa, in un monologo del bravissimo Roberto Herlitzka. Nel libro dello scrittore austriaco vi è la storia dell’incontro fatale tra due virtuosi del pianoforte, l’io narrante e Wertheimer e Glenn Gould: di fronte al genio canadese i due abbandoneranno presto la carriera pianistica e uno dei protagonisti, Wertheimer, ‘il soccombente’, arriverà al suicidio. Romanzo drammatico in cui l’autore non risparmia critiche sempre più feroci che come cerchi nell’acqua partono dall’ambiente musicale e investono Salisburgo, l’Austria, l’umanità stessa.
“Il Mozarteum è stato una cattiva scuola, pensai mentre entravo nella locanda, anche se sotto un certo aspetto per noi è stata la migliore perché ci ha aperto gli occhi. Tutti gli istituti di insegnamento superiore sono cattive scuole, e quello che noi frequentiamo è sempre il peggiore di tutti se non riesce ad aprirci gli occhi. Che razza di miserabili maestri abbiamo dovuto sopportare, han davvero violato le nostre menti. Tutti quanti rapinatori dell’arte, annientatori dell’arte, uccisori dell’ingegno, assassini di studenti. Horowitz era un’eccezione, come Markevič e Végh, pensai. Ma non basta un solo Horowitz, pensai, a far sì che un’accademia diventi una scuola di gran classe. In quell’edificio, celebre allora e ancora oggi come nessun altro edificio al mondo, dominavano gli strimpellatori; se dico che vengo dal Mozarteum, gli occhi della gente si riempiono di lacrime.”
“Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Franz Kafka ritorna a via Celetná a casa sua, con bombetta, vestito di nero. Ancor oggi, ogni notte, Jaroslav Hasek, in qualche taverna, proclama ai compagni di gozzoviglia che il radicalismo è dannoso e che il sano progresso si può raggiungere solo nell’obbedienza. Praga vive ancora nel segno di questi due scrittori, che meglio di altri hanno espresso la sua condanna senza rimedio, e perciò il suo malessere, il suo malumore, i ripieghi della sua astuzia, la sua finzione, la sua ironia carceraria”.
La “Praga magica“ di Angelo Maria Ripellino è popolata da una folla di personaggi: letterati, astronomi, rabbini, boia, un re che colleziona automi e si fa ritrarre scomposto in ortaggi e verzura. Una città fredda e misteriosa come misteriosa e clandestina è stata la scena musicale ceca. Scena che ha prodotto una perla come “Coniuncto”, ottimo LP di jazz-rock registrato nella primavera del 1970 dai Blue Effect in compagnia dei Jazz Q Praha e a pieno diritto inserito nella mitica lista dei Nurse With Wound. L’incontro tra i due gruppi si rivela una miscela altamente esplosiva. Uno squarcio aperto nella nebbia pronta a richiudersi in fretta quasi quanto l’apparizione del golem delle favole ebraiche.
“Ma le cose si fanno funeste, quando è il Golem, l’argilla imbecille, ad imbertonirsi. Odor di cunno risveglia anche il limo, dentro le brache dell’orco si accende la mostruosa candela. E che tetraggine gufesca, che sentore di apocalisse in questa libidine. Si chiami Esther o Golde o Mirjam o Abigail, la figlia civetta del rabbi desta le voglie del grosso mandrone di luto. È conseguenza delle sue brame lascive l’ansia che lo bistratta, di uscire dalla condizione d’automa, di avere un’anima umana”.
Ho letto con gran piacere ‘Alfred Jarry. Una vita patafisica’ di Alistair Brotchie edito da Johan & Levi. Così densa di episodi è la biografia di Jarry al punto che l’uomo confinato in una stanza minuscola con una bicicletta da corsa e una pistola finisce per oscurare le opere del geniale inventore della patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie. E tra le soluzioni trovate dallo scrittore bretone c’è da menzionare sicuramente la macchina per il decervellamento, complicata macchina rotatoria per estrapolare la materia grigia del condannato di turno. Nella ‘Chanson du decervelage’ cantata in Ubu Roi una famigliola va a vedere tra schizzi di sangue e pezzi di cervello che volano per l’aria la macchina in azione. Piacciono le esecuzioni capitali. E c’è da chiedersi a chi manchi il cervello, al decapitando o allo spettatore.
La canzone fu ripresa e tradotta da Vinicio Capossela nel ’93 per lo spettacolo teatrale ‘Pop e Rebelot’ di Paolo Rossi poi incisa dallo stesso comico milanese nel ’94 e inclusa in ‘Hammamet e altre storie’ prima di trovare la versione definitiva nel 2000 tra le ‘Canzoni a manovella’ di Capossela.