Gospel per Stalin

Un coro gospel americano che inneggia a Stalin: è successo davvero. Anno  1943. Il mondo in guerra. Bisognava scongiurare la minaccia nazista a tutti i costi e non si poteva andare tanto per il sottile nella scelta dei propri alleati foss’anche il dittatore georgiano. Nacque in quei giorni Stalin wasn’t stallin’, coro a cappella dei Golden Gate Jubilee Quartet, dove si tessono le lodi di Stalin.

“Stalin wasn’t stallin’ / When he told the beast of Berlin / That they’d never rest contented / Til they had driven him from the land / So he called the Yanks and English / And proceeded to extinguish / The Fuhrer and his vermin / This is how it all began
Il brano  fu ripreso da Robert Wyatt a inizio degli anni ’80 nel periodo di maggior coinvolgimento politico del musicista inglese, un impegno forte e sincero seppur di minore spessore artistico rispetto al resto della sua produzione.  La cover del Golden Gate Jubilee Quartet fu prima edita su singolo e poi nella raccolta ‘Nothing can stop us’ dove l’unico inedito è la splendida ‘Born again cretin‘.

Dulli e pupe

Nuovo disco in uscita per gli Afghan Whigs e come sempre capita per le band che ho amato negli anni novanta mi assale il timore che questo improvviso ritorno possa deludermi. Nell’attesa godiamoci il passato.

Inseriti a forza nel carrozzone del grunge solo perché avevano cominciato a incidere con la SubPOP il gruppo di Greg Dulli non è mai riuscito ad emergere come avrebbe pure meritato per quel singolarissimo rock morboso e malsano iniettato di soul e di Motown. Testi intrisi di sesso, droga e morte e ritmiche lussureggianti concentrati soprattutto nei due album ‘Congregation’ (1992, splendida copertina, su fondo rosso un neonato bianco tra le braccia di una donna nera, evidente richiamo alle radici musicali del rock) e ‘Gentlemen’ (1993). Fu il video di Debonair tratto da quest’ultimo disco a farmeli conoscere e a convincermi a comprare il CD che sulle prime mi deluse: ben lontana era la loro musica dal grunge imperante di allora. Col tempo ho poi imparato ad amarli visceralmente come viscerale è sempre stato il cantato di Dulli diventato noto alle nostre latitudini anche per le collaborazioni con gli Afterhours di Manuel Agnelli e in tandem con Mark Lanegan nei Gutter Twins.

I decervellati

Ho letto con gran piacere ‘Alfred Jarry. Una vita patafisica’ di Alistair Brotchie edito da Johan & Levi. Così densa di episodi è la biografia di Jarry al punto che l’uomo confinato in una stanza minuscola con una bicicletta da corsa e una pistola finisce per oscurare le opere del geniale inventore della patafisica, la scienza delle soluzioni immaginarie. E tra le soluzioni trovate dallo scrittore bretone c’è da menzionare sicuramente la macchina per il  decervellamento, complicata macchina rotatoria per estrapolare la materia grigia del condannato di turno. Nella ‘Chanson du decervelage’ cantata in Ubu Roi una famigliola va a vedere tra schizzi di sangue e pezzi di cervello che volano per l’aria la macchina in azione. Piacciono  le esecuzioni capitali. E c’è da chiedersi a chi manchi il cervello, al decapitando o allo spettatore.

La canzone fu ripresa e tradotta da Vinicio Capossela nel ’93 per lo spettacolo teatrale ‘Pop e Rebelot’ di Paolo Rossi poi  incisa dallo stesso comico milanese nel ’94 e inclusa in ‘Hammamet e altre storie’ prima di trovare la versione definitiva nel 2000 tra le ‘Canzoni a manovella’ di Capossela.

La scoperta dell’acqua calda

L’intento di chi scrive è principalmente quello di percorrere sentieri meno battuti e dare visibilità a realtà musicali meno note. Mi rendo conto che scrivere di un disco ritenuto praticamente all’unanimità tra quelli fondamentali della storia del jazz equivale a snocciolare i più triti luoghi comuni: dal non ci sono più le mezze stagioni al qui era tutta campagna fino al si stava meglio quando si stava peggio.

Evito di scrivere sciocchezze e dico solo che Kind of Blue è per me un’aspirina che fa bene a testa e cuore.  Per i pochi che non hanno ancora ascoltato il sestetto stellare di Miles Davis – al servizio del geniale trombettista ci sono John Coltrane, Julian Cannonball Adderley, Bill Evans, Paul Chambers e Jimmy Cobb – è ora di rimediare.

Sonno cattivo

Sonno cattivo e agitato quello degli Sleep alle prese con il loro ultimo incubo: un travaglio compositivo lungo quattro anni e fatto di registrazioni, ripensamenti e contenziosi infiniti con le etichette discografiche che hanno partorito diverse versioni dell’album più o meno autorizzate.  Conosciuto come Dopesmoker oppure Jerusalem il disco è costituito in pratica da un’unica  colata lavica della durata di circa un’ora che avanza con la lentezza inesorabile di un cingolato. Zenit e punto di non ritorno per il trio californiano di Al Cisneros, basso e voce, Chris Hakius,  batteria e Matt Pike, chitarra.

Un’emozione (non) da poco

La piramide di Tirana è un contenitore vuoto che i ragazzi usano come scivolo.  Nata come museo e memoriale di Enver Hoxha è diventata prima centro culturale poi locale notturno beffardamente chiamato ‘La mummia’. La struttura perde pezzi, dentro e fuori, e c’è chi vorrebbe abbatterla cancellando uno dei segni più ingombranti di un passato vissuto sotto assedio.  Hoxha riuscì a isolare il paese rompendo prima con la Jugoslavia di Tito, poi con l’Unione Sovietica, poi con la Cina accusata di aver tradito l’ortodossia marxista-leninista.  Dal 1978 l’Albania ebbe relazioni diplomatiche solo con Cuba, il Vietnam, l’Algeria, la Libia di Gheddafi, l’Iran dell’ayatollah Khomeini e pochi altri paria del globo. Hoxha lasciò un paese trincerato dietro quelle casematte che ancora punteggiano la costa e dove lo stesso apparato dirigente viveva recluso nel quartiere di Tirana chiamato non a caso Blok, il blocco.

Un’emozione non da poco entrare con passo guardingo nella scalcinata piramide come tra i cocci infranti di una storia d’amore. Un’emozione non da poco come quella cantata da Max Collini in quel piccolo gioiellino che è Socialismo Tascabile, l’esordio quasi fuori tempo massimo dei reggiani Offlaga Disco Pax con in testa un’altra emozione, da poco stavolta, cantata da Anna Oxa dopo aver abbandonato le due acca dell’ingombrante cognome d’origine .

Al top col pop

“Mi pare che in una intervista mi avessero chiesto quali fossero le mie dieci canzoni preferite e io avevo subito accettato, perché mi diverto a stilare quegli elenchi. La lista finì in mano a Simon Draper della Virgin, che notò la presenza di quel vecchio successo dei Monkees e mi domandò: «Dicevi sul serio?» Io avevo bluffato, lui era venuto a vedere e quindi risposi di sì. Entrai in studio e incisi I’m A Believer.”

Registrata quasi per scherzo con Nick Mason dei Pink Floyd alla batteria, Fred Frith alla chitarra, Richard Sinclair al basso e Dave MacRae al piano, il brano entra nelle classifiche dei singoli più venduti tanto da ricevere l’invito a eseguirla in TV.

Ma quando trapela che il produttore Robin Nash di Top of the Pops ha detto che non sta bene mostrare la sedia a rotelle negli spettacoli d’intrattenimento per le famiglie Robert Wyatt propone provocatoriamente di presentarsi con tutto il complesso in sedia a rotelle. Alla fine la spunta Wyatt che comparirà davanti al pubblico di Sua Maestà con la sua sedia a rotelle ma sarà una vittoria effimera: il grande musicista britannico sarà per questo, e per una proposta musicale sempre controcorrente, messo in disparte e tenuto lontano dai riflettori della TV.

Pasqua con chi vuoi

Onoro il proverbio e passo Pasqua in compagnia del compianto Holger Czukay, allievo di Stockhausen, bassista degli imprescindibili Can, musicista di parecchie spanne sopra la media anche negli episodi minori della sua ricca discografia: l’ellepì ‘Rome remains Rome’ uscì giusto trent’anni fa e ospita come guest star involontaria un certo Karol Wojtila, Papa Giovanni Paolo II, nel brano Blessed Easter dove il musicista tedesco manipolava voci e suoni rubati a piazza San Pietro.

Ben oliati gli ingranaggi

L’estemporaneo nome Hash Jar Tempo, una storpiatura dei krauti Ash Ra  Tempel, vide il neozelandese Roy Montgomery (già Dadamah) far comunella con gli americani Bardo Pond. La combriccola tirò fuori due monumentali dischi di chitarre: Well Oiled (1997) e Under glass (1999). Due veri e propri muri del suono destinati a chi, dal fondo di un pozzo, ha il coraggio di arrampicarsi e arrivare fin lassù  dove la luce annulla i colori come nella copertina del primo fragorosissimo LP.

La piaga emozionale

‘The Emotional Plague’ è un disco splendido,  scoperto con almeno una decade di ritardo perché snobbato anche dai presunti alternativi dei miei stivali. Fu uno degli ultimi titoli licenziati dalla gloriosa Homestead Records che negli anni ottanta aveva per le mani band come Sonic Youth e Dinosaur Jr prima di chiudere i battenti nel 1996.

Il disco contiene un’ora di musica onirica e inquieta da mandare in loop per farsi riaprire ogni volta le piaghe dell’anima e rappresenta lo zenit compositivo e insieme il canto del cigno di un gruppo cazzone a cominciare da quella bislacca denominazione sociale, i ‘Supreme Dicks’, da Amherst, Massachusets, che impiegò quasi dieci anni ad affermarsi e moltissimo meno per far perdere le tracce. Come si conviene ai sogni dopotutto.