Una lucertola di nome Gesù

Il losco figuro che me li fece conoscere, mezza vita fa, era esaltato dal loro nome: “Gesù lucertola” cianciava. Ma andava tradotto semplicemente con basilisco, la lucertolina quasi alata capace di camminare sull’acqua. E forse di sguazzare nel sangue della vasca da bagno di Mary, primo atto di un repertorio seriale di nefandazze ora narrate ora sputacchiate dal cantante David Yow già nei seminali Scratch Acid col sodale David Wm. Sims e qui ancora in trio col chitarrista Duane Denison: solo piú tardi la batteria elettronica sarà sostituita da un batterista in carne ed ossa.

Bloody Mary è post-hardcore che vanterà innumerevoli tentativi di imitazione, Nirvana in primis, ma tutti inferiori al modello originale.

Lo sterco del diavolo

Il simbolo del dollaro si trasforma in un infernale quadrupede cornuto. Moolah è termine slang che sta per denaro. Due oscuri musicisti newyorkesi nel 74 registrano a nome Moolah questo unico e disturbante LP Woe Ye Demons Possessed, degno di essere messo a fianco ai coevi dischi di krautrock. Concretismi ed elettronica assortita in questo album che si guadagnerà una menzione nella famigerata Nurse With Wound list. Da ascoltare con attenzione.

 

 

Il cuore è uno zingaro (d’Atlante con un fiore a New York)

Inseriti a torto nel calderone del progressive italico i N.A.D.M.A. (Natural Arkestra De Maya Alta) vantano una discografia composta da soli due dischi: Come uno zingaro di Atlante con un fiore a New York realizzato in studio nel 1973 e un live dello stesso anno, Paura, edito solo nel 2006.

Le radici della musica dei N.A.D.M.A. vanno cercati, non nel prog, ma nel free jazz (dalla Arkestra di Sun Ra ai lavori di Don Cherry con cui il leader dell’ottetto, Marco Cristofolini aveva suonato). Una musica camaleontica che incorpora temi etnici, orientali e africani, senza mai farsi world-music.

Zucche soniche

Zucche piene per la notte d’Ognissanti. La gioventù sonica nel pieno della giovinezza. E’ il 1985, l’anno di Bad Moon Rising, zucca esplosa in copertina, album maledettamente ostico culminante nel finale assassino di  Death Valley ’69 dove al quartetto newyorkese si aggiunge Lydia Lunch.  Ed è l’anno in cui viene registrato il singolo Flower/Halloween.

La B-side, Halloween, una canzone bisbigliata da una morbosa e sensuale Kim Gordon che racconta una storia perversa di abbandono carnale, avrà più fortuna e sarà anche riproposto dai Mudhoney nello split in cui i Sonic Youth reinterpreteranno la celebre Touch me I’m Sick del gruppo di Seattle.

Il sangue di Cristo

Se diffidate delle religioni ma credete nella religiosità ecco un disco di musica sacra: “Jesus’ blood never failed me yet” di Gavin Bryars. In realtà il protagonista di questa storia non è Gavin Bryars e il disco non è stato registrato tra le austere navate di una cattedrale: il musicista inglese, girovagando per le vie di Londra con un registratore per la realizzazione di un documentario captò tra voci e schiamazzi assortiti anche la voce di un ignoto barbone che canticchiava questa canzone nel tunnel della metropolitana.  Pochi secondi dalla forza misteriosa che si prestavano ad essere messi in loop.
When I played it at home, I found that his singing was in tune with my piano, and I improvised a simple accompaniment. I noticed, too, that the first section of the song – 13 bars in length – formed an effective loop which repeated in a slightly unpredictable way. I took the tape loop to Leicester, where I was working in the Fine Art Department, and copied the loop onto a continuous reel of tape, thinking about perhaps adding an orchestrated accompaniment to this. The door of the recording room opened on to one of the large painting studios and I left the tape copying, with the door open, while I went to have a cup of coffee. When I came back I found the normally lively room unnaturally subdued. People were moving about much more slowly than usual and a few were sitting alone, quietly weeping”.
L’idea di Bryars fu allora quella di reiterare quell’unica frase accompagnandola con un crescendo di strumenti. Nacque così questo pezzo eseguito la prima volta nel 1972 e messo su disco per l’etichetta di Brian Eno nel 1975.
Poi nel 1993 Gavin Bryars ricevette una telefonata di Tom Waits che cercava quel vinile ormai introvabile. Quella strana richiesta fu la scintilla che portò alla registrazione ex novo dell’album stavolta esteso a 74 minuti con l’accompagnamento finale dello stesso cantante americano diventato disco dopo disco nume tutelare di tutti i barboni e di tutti gli ubriaconi della Terra.

Una corona di spine poggiata sul palco tra la chitarra e le spie

Una corona di spine poggiata sul palco tra la chitarra e le spie.

Così Emidio Clementi dei Massimo Volume ci ricordava di ricordare il compianto cantautore americano Vic Chesnutt, morto a soli 45 anni dopo una vita segnata da un terribile incidente d’auto che l’aveva costretto su una sedia a rotelle dall’età di 19. L’incidente era stato provocato dalla dipendenza all’alcool da cui riuscirà col tempo faticosamente a liberarsi. Sintomatico in tal senso il titolo del suo terzo disco Drunk, registrato in un perenne stato di ubriachezza. Non riuscirà invece Chesnutt a liberarsi da quei demoni che lo porteranno a tentare più volte il suicidio, sempre sventato, fino all’ultimo, fatale.

Scoperto ad Athens dall’illustre concittadino Michael Stipe, cantante dei R.E.M. che produrrà i suoi primi dischi e divenuto beniamino di tanti musicisti, dagli Smashing Pumpkins a Madonna, per i suoi testi poetici e spesso dolentemente autobiografici, Vic Chesnutt si inoltrerà anche in territori altri come quando nel 2007 registrerà l’album North Star Deserter  con i canadesi Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra e il chitarrista dei Fugazi Guy Picciotto che aggiungeranno un’eroica drammaticità alle sue canzoni.

Il lupo non perde il vizio

Leggenda vuole che nel 1963 Warren Zevon partì dall’assolata Arizona in direzione New York in cerca di fortuna come cantante folk. Aveva appena sedici anni e l’auto appena vinta dal padre, giocatore d’azzardo. Nel 1978 con il singolo Werewolves of London riuscì ad ottenere un discreto successo nonostante le continue ricadute nel vizio dell’alcol che si ripeteranno frequenti nella sua vita.
Nel 1987 il nostro si ritrova in studio con 3/4 dei R.E.M., manca solo Michael Stipe, per le registrazioni di un suo disco solista. Complice l’alcol i quattro in una sera realizzano una serie di cover scanzonate che verranno pubblicate nel 1990 sotto lo pseudonimo Hindu Love Gods. Tra tanti archetipi folk e blues (Woody Guthrie, Robert Johnson, Willie Dixon, Bo Diddley, Muddy Waters) spicca una versione molto rock di Raspberry beret di Prince.

Eccoci all’acqua

La musica ambient o emoziona oppure è una noia mortale. Watermusic, del compositore elettronico texano William Basinski, riesce a emozionarmi sempre. E’ un lungo flusso sonoro di oltre un’ora, un mare calmo in superficie ma agitato da strani gradienti di temperatura sotto. Un mare senza pesci, senza fondale, un mare notturno dove filtrano solo debolissime luci: è così che me lo immagino.

Nato nel 1958 ma arrivato tardi alla notorietà grazie a Carsten Nicolai, al secolo Alva Noto, che lo ha scoperto sul finire degli anni novanta a New York,  Basinski, con alle spalle un passato da sassofonista jazz ha basato la sua arte di loop, droni e suoni sbriciolati di vecchi nastri magnetici come avverrà nei suoi più famosi Disintegration Loops.

Tutta questa scienza che non capisco

La corsa allo spazio che caratterizzò gli anni della guerra fredda, culminando con la conquista della Luna da parte degli americani, colpì l’immaginario collettivo ispirando cinema, musica e letteratura. Nacquero lo space-rock degli Hawkwind e la musica cosmica teutonica e si avviarono vere e proprie saghe come quelle del pianeta Gong dell’omonima band di Daevid Allen e del pianeta Kobaia dei Magma di Christian Vander con tanto di testi in kobaiano.  Ma ovviamente la saga più famosa fu quella di Ziggy Stardust e gli Spiders from Mars, l’incarnazione più celebre di David Bowie che però aveva già trattato i temi spaziali con Space Oddity tre anni prima, in quel fatidico 1969 della passeggiata di Armstrong sul suolo lunare.

Orgoglioso di essere arrivato prima di altri, ma non  primo in assoluto, David non gradì l’invasione di campo di Elton John, entrato in classifica con Rocket Man un attimo prima dell’uscita della sua Starman e che riteneva una scopiazzatura di Space Oddity. A corroborare i suoi sospetti c’era la presenza dietro al pezzo di Elton John del produttore Gus Dudgeon, lo stesso che aveva lavorato con Bowie a Space Oddity.

Rocket Man, una canzone il cui tema è in fondo quello dell’emigrante che lascia la famiglia e va a lavorare sulla fredda Marte, finì per aprire le porte del successo ad un Elton John che adottò proprio in quel periodo e ancora una volta sulle orme di Bowie, l’estetica glam-rock e quel look stravagante che diventerà il suo tratto distintivo.

Alberi, erba e pietre

I Träd, Gräs & Stenar, letteralmente alberi, erba e pietre sono l’ultima evoluzione dei Pärson Sound poi diventati con la perdita di un paio di elementi prima International Harvester, poi Harvester, fino all’ultima ragione sociale con cui hanno continuato ad esibirsi fino in tempi recenti. Fanno parte di quella interessantissima scena musicale svedese nota come progg, più vicina alla psichedelia che al quasi omonimo prog-rock.  Il brano che preferisco è la lunga jam di Amithaba, registrata nel 1972 e comparsa come bonus track in una recente ristampa del loro secondo LP Djungelns Lag.