Il 22 maggio del 71 un incredibile terzetto registra una breve performance per il programma televisivo Beat Club . I tre sono Florian Schneider, Michael Rother e Klaus Dinger ovvero i Kraftwerk in quei pochi mesi di interregno durante il quale Ralf Hutter ha lasciato il gruppo.
Quell’unica registrazione per l’emittente tedesca WDR, miniera d’oro per gli amanti del krautrock, spalanca mille suggestioni sul come sarebbe stato se da lì a poco Rother e Dinger non se ne fossero andati per registrare il primo capolavoro a nome Neu! e d’altra parte se sarebbe stata così drastica l’accelerata elettronica di Schneider che ritroverà Hutter ma dovrà fare i conti con l’assenza di strumenti umani.
Prima che Ralf Hütter e Florian Schneider lasciassero i compagni di università Basil Hammoudi, Butch Hauf e Alfred Mönicks nell’anonimato musicale per dare vita in tandem ai Kraftwerk, ebbero tempo di registrare, con la supervisione dell’onnipresente Conny Plank, l’album Tone Float accreditato alla Organisation zur Verwirklichung gemeinsamer Musikkonzeptedalla ragione sociale più lunga del tempo in cui restarono gruppo musicale. Ancora lontani dall’elettronica autostradale e robotica a cui ci abitueranno in seguito i due qui la fanno da padroni gli strumenti, a cominciare dal flauto traverso di Florian, per questo disco di torrido kraut.
“Vem saber se o mar terá razão / Vem cá ver bailar meu coração”
Luogo comune lusitano voleva il fado, con Fatima e il futebol, uno dei tre piedi che mantenevano in equilibrio la dittatura di Salazar. Ed effettivamente in quegli anni bui si tentò di irregimentare il genere musicale popolare per eccellenza. Ma pur tirato fuori dallo scuro delle osterie ai riflettori delle Eurovisioni, il fado, che si vuole derivato dal vocabolo latino fatum, è rimasto lo specchio del dolente animo portoghese.
Canção do mar, in origine intitolato Solidão, interpretato dalla reina do fado, Amàlia Rodrigues, condensa in due minuti tutte le caratteristiche del genere: “vieni a vedere se avrà la meglio il mare, vieni qui a vedere il mio cuore in sua balia” canta la donna all’amato.
Nel 2009, anno del centenario del Manifesto del Futurismo, fu portato in scena un divertentissimo spettacolo capitanato da Elio, senza le Storie Tese, con un piccolo manipolo di musicisti che univa recuperi d’antan e pezzi composti per l’occasione.
La magnifica spedizione fu… turista da Milano a Marechiare per uccidere il chiaro di luna, questo il titolo, inscenava un immaginario viaggio di Marinetti e i suoi accoliti da Milano a Napoli.
Peccato che, a parte qualche breve stralcio presente in rete, non sia mai stato documentato su disco neppure dal vivo.
In scaletta compariva più di un pezzo di Rodolfo De Angelis che prima di diventare cantore del fascismo fu uno dei primi animatori del teatro futurista a Napoli, suoi anche tre volumetti dedicati alle vicende dell’epoca, Caffè concerto: memorie d’un canzonettista, Noi Futuristi e Storia del Café-chantant. Lontano dalle provocazioni rumoriste di un Russolo, De Angelis, spurgato dei peana al regime, fu salace autore di irresistibili canzonette.
Cauldron dei Fifty Foot Hose è, come promette il titolo del disco, un calderone in cui la psichedelia di San Francisco è annegata in un brodo di effetti elettronici ricavati dagli strumenti fatti in casa da Louis Cork Marcheschi che aveva già esordito nel 1966 in solitaria sulla brevissima distanza con il singolo, anche questo dal titolo programmatico, Bad Trip. Con lui, due anni dopo a realizzare Cauldron, ci sono i coniugi Nancy e David Blossom, Kim Kimsey e Larry Evans. Un disco che suona ancora oggi coraggioso nell’imboccare strade altre dagli stilemi abusati di tanti gruppi usciti dalla Bay Area.
Quando alla sua morte aprirono finalmente la stanza tenuta sempre chiusa a chiave del suo piccolo appartamento di due camere chiamata scherzosamente l’armadio trovarono vestiti tutti uguali e un gran numero di ombrelli. Fu l’ultima stravaganza di Erik Satie. Era il 1925.
Soltanto l’anno prima aveva partecipato al film dadaista di Renè Clair L’entr’acte dove in compagnia di Francis Picabia carica un cannone contro Parigi mentre Marcel Duchamp e Man Ray giocano a scacchi.
Per certi versi quel gesto ben rappresentava la carriera antiaccademica del grande gimnopedista di Honfleur, quello che già nel lontano 1893 aveva progettato le Vexations, brevi partiture da ripetere per 840 volte e da suonare a se stessi o quello che aveva inserito nelle musiche per il balletto Parade, soggetto di Jean Cocteau, scene e costumi di Pablo Picasso, i suoni di una macchina da scrivere, una rivoltella, una ruota della lotteria, una sirena da nave e una turbina.
“Raindrops on roses and whiskers on kittens / Bright copper kettles and warm woolen mittens / Brown paper packages tied up with strings / These are a few of my favorite things”
Le cose che piacciono a me stanno tra il miele di Julie Andrews e il fiele di Lars von Trier di Dancer in the dark, dove la protagonista e al contempo antagonista del regista danese c’era Bjork.
“Cream colored ponies and crisp apple strudels / Doorbells and sleigh bells and schnitzel with noodles / Wild geese that fly with the moon on their wings / These are a few of my favorite things!”
Tra quei due poli ci sono le decine di versioni di John Coltrane dilatò in lungo e in largo, ogni volta incanalando le note per nuovi meandri, la canzone composta per il musical di The sound of music trasposto poi sul grande schermo da Robert Wise nel 1965.
“Girls in white dresses with blue satin sashes / Snowflakes that stay on my nose and eye lashes / Silver white winters that melt into spring / These are a few of my favorite things!”
“When the dog bites, when the bee stings / When I’m feeling sad, / I simply remember / my favorite things / and then I don’t feel so bad!”
Mi sono imbattuto in una cover di Smells Like Teen Spirit dei Nirvava eseguita da Robert Glasper. Robert Glasper suona il piano e pubblica per l’etichetta Blue Note, nome quasi sinonimo di jazz. Scorrono le dita sui tasti del piano, mia figlia si addormenta, a me viene voglia di pogare.
Incuriosito, ho ascoltato altre cose di Glasper, potabilissime ma nessuna che mi abbia scaldato il cuore se si eccettua un’altra cover, stavolta dei Radiohead, Packt Like Sardines in a Crushd Tin Box.
La mia riflessione però non va all’onesto Glasper e al suo jazz pieno di contaminazioni, ma a come, pur depurata di tutto, il brano simbolo della band di Seattle, il capolavoro nato da un tragico equivoco, Cobain ignorava che lo spirito adolescenziale, il Teen Spirit, era un banale deodorante femminile, conservi tutta la sua magmatica forza.
Rubo il titolo alla omonima raccolta di saggi di David Foster Wallace per scrivere dell’aragosta più famosa della new wave, la Rock Lobster dei B52’s da Athens, Georgia culla dei più famosi R.E.M. e degli infinitamente meno Pylon.
Parlare dei B52’s vuol dire per me fare pubblica ammenda per non averli mai considerati né carne né pesce. E invece il loro sound è prelibato come il miglior crostaceo: solare, ironico, geniale nel recupero della miglior tradizione dei gruppi vocali degli anni sessanta e della surf music.
“Una lanterna d’albergo. Il mare pieno zeppo di conchiglie.[..] L’automobile tractracca per strada. / Il treno va guardando il Brasile. / Il Brasile è una Repubblica Federale piena di alberi e di gente che dice addio. / Poi tutti muoiono.”
Manifesto antropofago, 1928. Oswald De Andrade definisce l’arte brasiliana cannibale, capace di fagocitare le tante culture da cui ha preso vita il Brasile. Ha già scritto le Memorie sentimentali di Giovanni Miramare e da lì a poco realizzerà il Serafim Ponte Grande un vero e proprio puzzle dove il lettore deve ricostruire il romanzo (?) attraverso la discontinuità dei tanti frammenti che formano il libro.
“Il paesaggio di questa capitale putrisce. Mi presento al lettore. Pelotarista. Personaggio dietro una vetrata. Impermeabile e galoches. Certi militari hanno cambiato la mia vita. Gloria agli uomini di fede! Là fuori, quando asciugherà la pioggia, ci sarà il sole.”
Serafim attraversa la rivoluzione paulista del 1924 e tiene un cannone nel cortile. Invito che Oswald De Andrade continuerà a ripetere ai proletari brasiliani dalle pagine del giornale O homen livre negli anni precedenti alla rivoluzione (ancora un’altra!) del 1937. Personaggio vitalissimo, impegnato e anticonformista De Andrade, così presentato da Giuseppe Ungaretti nella prefazione alle Memorie sentimentali:
“Non so quale fosse la sposa che aveva impalmato in quei giorni, settima, undicesima oppure ventunesima. Non ebbero più donne Abramo, né Matusalemme né Noè messi insieme, che devono averne godute moltitudini per popolare o ripopolare questo pianetaccio, a differenza del povero Adamo che combinò tutto con la sola povera Eva, guai o miracoli che fossero, dipende dai pareri. Tra la moglie bambina e un quadro recente di Picasso che si baloccava tra le braccia, raccontava storie dell’altro mondo, un po’ come fosse il Padre Eterno o il suo rivale da girarrosto. Aveva vissuto a Parigi, nababbo, non rastaquero, e vi aveva scoperto tutto, annusato tutte le puzze e tutti gli olezzi, fino al collo ficcato in tutte le trappole, uscendone indenne e bobo da bravo illusionista. Non aveva riportato in Brasile, sposa, come succedeva allora al sudamericano pingue di moneta quanto di corpo, la femmina che l’aveva adescato chissà in quale lupanare di Lutezia, carnosa, di connotati correggeschi già stuzzicante di libidine dal fugace adocchio.”
Fabrizio De André omaggió il suo quasi omonimo paulista nel disco Le Nuvole, album ricchissimo di spunti , sin dal titolo preso in prestito da Aristofane. Ne La domenica delle salme c’è di tutto: c’è come detto De Andrade, c’è la caduta del muro di Berlino, ci sono le BR di Renato Curcio e la gamba amputata di Piero Maroncelli (compagno di Silvio Pellico al famigerato Spielberg). Una canzone che non esaurisce mai la sua carica di rimandi e offre sempre nuove possibili chiavi di lettura.