Gli Young Marble Giants durarono il tempo di un disco e una manciata di singoli. L’unico LP Colossal Youth, uscito nel 1980 per la Rough Trade, è composto da brevi brani caratterizzati dalla voce glaciale di Alison Statton, l’organo di Stuart Moxham e il basso del fratello Philip. La batteria elettronica e la quasi assenza della chitarra conferiscono al disco quel tipo di sound che sarà caratteristico del post-punk.
“Sputi” è un estemporaneo ma perfettamente riuscito episodio musicale di Marco Paolini e del suo “teatro civile”. Accompagnato dai Mercanti di Liquore il disco era nato attorno a un nucleo di tre pezzi, ‘Due parti di idrogeno per una d’ossigeno’, ‘Regola acquea’, ‘Mare Adriatico’, dedicati alla difesa dell’acqua, l’oro blu costantemente minacciato da chi vorrebbe arrogarsene la proprietà. A questa manciata di brani finirono per sommarsi pezzi antimilitaristi originali o estrapolati da testi di Erri De Luca, Gianni Rodari, Mario Rigoni Stern. Ed altri tratti dai Canti Orfici di Dino Campana e dalle opere di Biagio Marin, Giacomo Noventa, Ernesto Calzavara.
Fare musica d’avanguardia usando gli strumenti del rock. Questa è stata la missione di Glenn Branca, musicista americano, cattivo allievo dei padri del minimalismo tanto da essere etichettato come fascista da John Cage!
Incurante delle critiche Branca ha esplorato a lungo le mille possibilità di estorcere suoni alle chitarre elettriche lavorando su improbabili accordature e scordature sin dall’esordio discografico sulla lunga distanza di The Ascension, nel 1981 con un sestetto composto da Ned Sublette, David Rosenbloom, Lee Ranaldo dei Sonic Youth e lo stesso Branca alle chitarre, Jeffrey Glenn al basso e Stephan Wischerth alla batteria.
Lasciatosi alle spalle la hit pop Un’ora sola ti vorrei degli Showmen, il sassofonista James Senese e il batterista Franco Del Prete arruolano il bassista britannico Tony Walmsley e il tastierista americano Mick Harris per l’esordio, nel 1975, dei Napoli Centrale, miscela esplosiva di vigoroso jazz-rock e canzone di denuncia sociale. Testi in dialetto partenopeo che affrontano emigrazione, spopolamento delle campagne, disparità sociale, satira del potere.
“With unforced humanity and poetry Chimenti wrestles with his angels and in the process acquires a unique voice with which to comunicate what is gleaned”. (David Sylvian)
Artista di grande sensibilità Andrea Chimenti è passato dalla new wave dei Moda negli anni ottanta a svariati progetti e collaborazioni dal singolo Ti ho aspettato (I Have Waited for You) realizzato con David Sylvian alle esperienze con la compagnia francese di danza Silenda a quella teatrale con Il deserto dei Tartari di Buzzati fino alla recente riproposizione del repertorio di David Bowie.
Vale la pena riascoltarsi allora Qohelet, uscito nel 1997 per i Taccuini del Consorzio Produttori Indipendenti, l’ambiziosa collana di musica aliena dei C.S.I. di Gianni Maroccolo. In questo disco Chimenti in compagnia dell’attore Fernando Maraghini reinterpreta brani tratti dall’omonimo libro biblico, da Giuseppe Ungaretti e Fernando Pessoa.
La scena musicale francese degli anni settanta ha prodotto esperienze musicali di assoluto rilievo. Un album da riscoprire è l’esordio dei Lard Free di Gilbert Artman, prolifico polistrumentista, in seguito alla testa di Urban Sax e Catalogue oltre che autore in proprio di colonne sonore.
Questa prima prova è un avventuroso jazz-rock ben illustrato dalla copertina dell’album: un coltello che incide una nuvola. E l’iniziale Warindbaril pare davvero strappare il cielo dipinto di rosso di una quinta teatrale.
L’isolamento di territori come la Nuova Zelanda è stato il presupposto per lo sviluppo di una fauna e una flora completamente autoctona. Musicalmente si potrebbe fare lo stesso discorso: la distanza, enorme in tempi in cui internet era ancora in fase embrionale, ha favorito lo sviluppo di una scena assolutamente originale. Tra i frutti migliori c’è questo This is not a dream dei Dadamah, quartetto che vedeva il chitarrista Roy Montgomery, figura fondamentale della scena musicale neozelandese, affiancato dalla bassista Kim Pieters, la tastierista Janine Stagg e il batterista Peter Stapleton. Un disco da sonni inquieti dove la psichedelia sixties viene maltrattata alla maniera dei Velvet Underground, il tutto ovviamente registrato in bassa fedeltà.
“Kebabträume in der Mauerstadt / Türk-kultur hinter Stacheldraht / Neu Izmir in der DDR / Atatürk der neue Herr / miliyet für die Sowjetunion / in jeder Imbißstube ein Spion / ein ZK-Agent aus Türkei / Deutschland Deutschland / Alles ist vorbei / Wir sind die Türken von morgen” (*)
Quando nel 1961 sulla faccia di Berlino comparve l’oscena cicatrice del muro il quartiere di Kreuzberg diventò un vero e proprio cul de sac. Tre lati su quattro si erano ritrovati ad avere come orizzonte cemento armato e filo spinato. Così Kreuzberg si svuotò e fu presto occupato da immigrati turchi e punk di mezza Europa. Fu in questo clima che nacquero esperienze musicali eterogenee dai D.A.F. ai nostrani CCCP. E fu qui, in Oranienstrasse che sul palco del piccolo locale SO36 passarono i martelli pneumatici degli Einsturzende Neubauten e il sudore e gli sputi di Iggy Pop e Nick Cave.
(*) Sogni di kebab nella città del Muro / la cultura turca dietro il filo spinato / Una nuova Smirne nella DDR / Atatürk è il nuovo dominatore / milita per l’Unione Sovietica / una spia in ogni birreria / un agente del ZK dalla Turchia / Germania, Germania, è tutto finito / Siamo i turchi di domani)
In danese, svedese e norvegese Å è l’ultima lettera dell’alfabeto. Come parola in sé significa piccolo corso d’acqua. Ed è un rivolo sonoro quello del terzetto veronese composto da Stefano Roveda (violino, piano, kalimba, sinth, theremin, percussioni, chitarra, cetra, caos pad, contrabasso, voce), Andrea Faccioli (chitarra, cetra, kalimba, piano, percussioni, voce) e Paolo Marocchio (batteria, percussioni, kalimba, cello, voce, piano, flauto, effetti) che nel 2006 incidono un disco strumentale arrangiato dal musicista di origine basche Xabier Iriondo (Afterhours, A Short Apnea, Six Minute War Madness e tantissimi altri progetti) per la milanese Die Schachtel, etichetta specializzata nel recupero dei musicisti d’avanguardia.
Un lungo flusso sonoro che rapisce e trasporta in mille luoghi senza mai fermarsi da nessuna parte. I titoli non facilitano il compito: sono lo spezzettamento di un brano estrapolato da Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon.
L’avventura degli Å pare cominciare e finire con questo disco, ed è un vero peccato.
“Non sarebbe stato difficile per gli apostoli aver vissuto nell’Unione Sovietica. Lì ci sono persone meravigliose come loro“
Il 1977 è l’anno del punk. Johnny Rotten canta ‘Io sono l’anticristo’. L’Estonia invece è ancora una delle quindici repubbliche dell’URSS. Arvo Pärt, dopo sette anni di silenzio, stanco della dodecafonia e della musica atonale, ricomincia a comporre. Riparte dalla musica sacra. La scompone, la semplifica. Ricerca una continua riduzione ai minimi termini. Ne uscirà Tabula Rasa. Un’opera di una sacralità tutta umana, fatta di boschi e montagne affacciate sul mare nell’ora del tramonto.
Ho incontrato la musica di Arvo Pärt per puro caso, parecchi anni fa. Fu amore all’istante per una musica impalpabile come un soffio ma capace di travolgere l’anima. Anche di un essere musicalmente incolto come il sottoscritto. Facile entusiasmarsi per il ritornello punk. Per i due-accordi-due e le quattro parole vomitate addosso al pubblico. È musica che si ascolta con la pancia, buona per mettere in subbuglio le viscere ma ancora troppo in basso per raggiungere mente e cuore.
Nato nel 1935 a Paide, un minuscolo paesino della piccola repubblica baltica, comincia a suonare gli strumenti che aveva in casa e che la seconda guerra mondiale aveva dimenticato di prendere: il pianoforte, l’oboe, le percussioni. Dal 1958 comincia a comporre le prime opere seguendo le prime avanguardie del novecento: serialità, atonalità, dodecafonia. Comincia ad avere molti attestati di stima di qua e di là della cortina di ferro. Poi il lungo silenzio che lo porterà alla creazione dei tintinnabuli.
“I tintinnabuli sono una zona in cui a volte vago quando sto cercando delle risposte -sulla mia vita, sulla mia musica, sul mio lavoro. Nelle mie ore buie, ho la certa sensazione che ogni cosa al di fuori di questa unica cosa non ha significato. La complessità e la multisfaccettatura mi confondono solamente, e devo ricercare l’unità. Ma cos’è questa unica cosa? E come posso trovare la mia strada verso di essa? Tracce di questa cosa perfetta appaiono in molte sembianze – ed ogni cosa che non è importante scivola via. Tintinnabuli è così. Eccomi solo col silenzio. Ho scoperto che è abbastanza quando anche una sola nota è magnificamente suonata. Questa unica nota, o un battito calmo, o un momento di silenzio, mi confortano. Lavoro con pochissimi elementi – una voce, due voci. Costruisco con i materiali più primitivi – con l’accordo perfetto, con una specifica tonalità. Tre note di un accordo sono come campane ed è perciò che chiamo questo tintinnabuli“.
Il Cantus in memoriam Benjamin Britten è il primo risultato di questo nuovo modo di procedere cui seguiranno i due magnifici movimenti di Tabula Rasa, Ludus e Silentium, e poi negli anni dopo l’abbandono forzato dell’Unione Sovietica, dove la musica del grande compositore estone diviene motivo di ostracismo ed ostilità, altre grandi composizioni come Fratres, Spiegel im Spiegel, Festina Lente, Für Alina fino alle composizioni di musica sacra, genere quasi dimenticato per i musicisti dell’ultimo secolo.
Una musica ottima per difendersi dal rumore che sovrasta quotidianamente ogni azione e che si amplifica nel formicaio impazzito degli ultimi giorni dell’anno.