Un disco polare. Il sibilo del vento artico percuote tutto Eskimo, album dei Residents dedicato al popolo innuit. Musica concreta per circa quaranta minuti di lento avanzamento verso un luogo lontanissimo e ostile: si fa una gran fatica ad avanzare nella tormenta elettronica di questo disco. Un’esperienza ai limiti della resistenza fisica dove o ci si arrende o si arriva alla meta letteralmente trasformati nei propri abiti mentali pur sapendo come nella conclusiva The Festival of Death che la Coca Cola può arrivare fino nelle più remote regioni artiche.
Martedì grasso. Giusto quindi spostarsi a New Orleans e lasciarsi imbonire dallo stregone Dr. John, the Night Tripper, e dal suo medicine show: qui convivono jazz, blues, psichedelia e stregonerie assortite, su tutte il voodoo, importate da Haiti. Una discografia sterminata cominciata nel lontano 1968 con Gris Gris. Buon divertimento.
Terzo titolo in catalogo per la Ohr Records e accreditato al solo Bernd Witthüser, in seguito sarà aggiunto alla denominazione sociale anche il polistrumentista Walter Westrupp, già presente in questa prima prova, Lieder Von Vampiren, Nonnen und Toten è una raccolta di macabre e ironiche canzoncine folk cantate in tedesco. Suoni non ancora contaminati da tentazioni cosmiche o progressive ma già ricchi di trovate anche nell’uso di strumenti inusuali o trovati.
Guidati dall’allampanato John Lurie, che sarà protagonista con Roberto Benigni e Tom Waits del film di Jim Jarmusch Daunbailò, i newyorkesi Lounge Lizards furono inizialmente tacciati di suonare fake-jazz visto la loro provenienza da ambienti punk e no wave. Ma è proprio l’approccio poco ortodosso al jazz a dare quel quid in più al loro esordio, eponimo, del 1981. Con John Lurie in quella prima prova discografica c’erano il fratello Evan al piano, il bassista Steve Piccolo, il batterista Anton Fier e il chitarrista di origini brasiliane Arto Lindsay, già nei DNA.
I Glaxo Babies rappresentano un ramo minore ma ricco di gemme dell’intricato albero genealogico dei gruppi di Bristol. Nati nell’anno del punk pubblicano nel 1980 il loro unico LP Nine months to the disco quando il chitarrista Dan Catsis è già emigrato nel Pop Group e il sassofonista Tony Wrafter ha fondato i Maximum Joy (in cui confluiranno in seguito il batterista Charlie Llewellin e lo stesso Catsis con un altro paio di elementi del Pop Group).
La breve parabola musicale dei Glaxo Babies (o Gl*xo Babies, per l’ostilità dell’omonima ditta farmaceutica) comincia con i primi singoli This is your life, Christine Keeler, Limited entertainment con il cantante Rob Chapman e prosegue con l’allontanamento dello stesso per dare un’impronta più sperimentale e funk al loro post-punk, fino a quell’ultimo Nine months to the disco registrato in un solo giorno. Chiarissime le parole di Wrafter a tal proposito: “Rob was into songs and we weren’t”.
Un capolavoro di psych-folk caduto nel dimenticatoio per decenni per colpa della somiglianza della cover del disco con quella di una pubblicità di scarpe. Fu per questo motivo grottesco che Pass the distance, l’esordio discografico dell’inglese Simon Finn pubblicato dall’etichetta Mushroom nel 1970 sparì dalla circolazione. E sparì dalla circolazione anche Simon Finn che andò in Canada per dedicarsi all’agricoltura biologica e all’insegnamento del karate.
Bisogna ringraziare David Tibet, leader dei Current ’93 e grande collezionista di dischi per aver riportato alla luce negli anni zero questa piccola gemma e anche lo stesso Simon Finn che da allora ha ripreso a fare musica e a pubblicare dischi.
Settetto londinese, i Catapilla (corruzione linguistica di caterpillar che qui sta letteralmente per bruco e non per il macchinario per la manutenzione stradale) vissero pochi anni senza diventare farfalle. Due ottimi dischi di jazz-rock venati di psichedelia e impreziositi dalle straordinarie doti vocali di Anna Meek, entrambi licenziati dalla Vertigo, l’omonimo Catapilla (1971) e Changes (1972).
Furono molti gli artisti che negli anni sessanta e settanta si stabilirono a Ibiza. Tra questi uno dei musicisti più affezionati all’isola fu il folletto Kevin Ayers che preferì sempre il calore e i divertimenti dell’isola al perseguimento del successo. Dopo un’infanzia passata in Malesia (e i cui echi si sentono in pezzi come Oleh oleh bandu bandung) e l’adolescenza a Canterbury dove fondò con i fratelli Hopper e Robert Wyatt i Wilde Folwers, trovò proprio alle Baleari il denaro per mettere in piedi i Soft Machine. Ayers e Daevid Allen convinserò infatti il milionario americano Wes Brunson a finanziarli per l’acquisto di tutta la strumentazione necessaria al loro progetto musicale. Ma come detto Ayers preferiva spassarsela e così abbandonò il gruppo dedicandosi in maniera saltuaria alle sue esperienze soliste e sfogare la sua multiforme e allegra creatività come in quella giocosa sarabanda sonora di Joy of a Toy, il suo esordio solista pubblicato dalla Harvest nel 1969.
Seymon Davidevic Kirlian era un semplice elettricista autodidatta di Krasnodar, in Unione Sovietica. Per imperizia, mentre riparava un generatore, fu colpito da una scossa elettrica. Avendo visto sprigionarsi dalla sua mano un arco elettrico colorato decise di ripetere l’esperienza e di immortalarla su una lastra fotografica. Scoprì che le parti del corpo umano fotografate emanavano un’aura che assumeva, a seconda della pellicola utilizzata, colori diversi. Di quello che è noto oggi come effetto Kirlian se ne appropriarono i pranoterapeuti per propagandare le loro teorie sui flussi di energia.
Kirlian photograph è anche il pezzo che apre Mix-up il primo disco dei Cabaret Voltaire, gruppo di Sheffield, alfieri, come i concittadini Clock DVA, di un post-punk dai connotati elettronici e industriali.
Anche in Italia c’è chi si è ispirato allo strano effetto, come i Kirlian Camera, attivi con il loro synth-pop dagli anni ’80 e che sono stati la prima band italiana arruolata dalla Virgin e, in tempi recenti, il poco noto trio dei Kirlian. Originari di Treviso hanno pubblicato l’interessante album strumentale A.U.R.A.L. nel 2015.
“If I die, I die”. Questo il titolo tautologico del miglior disco dei Virgin Prunes. Un disco fuori dal tempo, tribale e tecnologico, capace di rendere palpabile, quasi visibile, la componente teatrale dei loro concerti. Le voci di Gavin Friday, Guggi e Dave-Id (segnato nella voce e nel fisico da una meningite infantile) imbastiscono i loro occulti cerimoniali. E non è da meno la controparte strumentale capace di passare dal rumorismo più sperimentale a suoni new wave e danzerecci.
A differenza del gruppo dublinese per eccellenza, gli U2, cui erano strettamente legati (il chitarrista dei Virgin Prunes è il fratello di The Edge e fu Gavin Friday ad appiccicare al cantante degli U2 il fortunato nomignolo di Bono Vox) durarono molto poco vittime delle forze centrifughe che animavano i membri del gruppo: anni fa un tale mi raccontò di averli visti addirittura venire alle mani dopo un concerto tenuto a Firenze nel febbraio dell’82.