Corni d’Africa

Fu merito del genio di Jim Jarmusch, che lo inserì nella colonna sonora di Broken Flowers, la riscoperta di Mulatu Astatke, musicista etiope autore di una brillante miscela di ritmi africani e della tradizione copta, latini e jazz.

Trasferitosi negli anni sessanta per studiare musica prima a Londra e poi, nei settanta, a Boston ha dovuto aspettare gli anni duemila per avere quella notorietà rimasta confinata ai cultori dell’ethio-jazz.

Guardali negli occhi

Materiale Resistente fu pubblicato nel 1995 nel cinquantenario della Liberazione. Attorno ai C.S.I. di Giovanni Lindo Ferretti e soci coagularono tutta una serie di gruppi più o meno legati al consorzio in una rivisitazione più o meno fedele di canzoni della Resistenza. Oltre al disco fu organizzato un concerto a Correggio e girato un film documentario con la regia di Guido Chiesa e Davide Ferrario. Come spesso accade con queste operazioni non tutta la compilazione risulta a fuoco e ben amalgamata ma tanti sono i momenti capaci di creare il necessario cortocircuito tra il tempo presente e quello passato di necessario e doveroso ricordo.

Glad Bad Sad & Mad

La prima cosa che si notava dei Living in Texas (inglesissimi a dispetto del nome) era Mathew Fraser, il batterista. Focomelico, aveva due buchi nelle maniche della maglietta per afferrare meglio le bacchette, ma nonostante l’handicap fisico suonava con incredibile agilità. La loro passione per la musica ebbe la meglio per qualche anno sul loro status di morti di fame e anche di freddo, come ricorda chi li vide in azione a Firenze e a Genova nel freddo inverno dell’85. La loro interessante miscela di post-punk e goth-rock si esaurì in pochi album e diversi singoli ed EP tuttora di difficile reperibilità anche in rete. Un ingeneroso silenzio sulla band e sui suoi componenti fatta eccezione per Mat Fraser che negli ultimi anni si è ritagliato il ruolo di attore e performer (inclusi improbabili strip-tease in cui si stacca le protesi alle braccia).

Cerca, distruggi, costruisci

Szukaj, Burz, Buduj, ovvero cerca, distruggi, costruisci. Questo il significato dell’acronimo SBB, ragione sociale del gruppo polacco capitanato da Józef Skrzek (basso, piano, sintetizzatori) e completato dal chitarrista Antymos Apostolis e dal batterista Jerzy Piotrowski. L’esordio del gruppo è del 1974 dopo aver accompagnato il grande Czeslaw Niemen negli ottimi Volume 1Volume 2 e Ode to Venus. Grandi scorribande strumentali sospese tra jazz-rock e progressive per questo trio che in tempi di guerra fredda rimase sconosciuto oltre cortina.

Insetti

“Mentre l’albero era ancora alto e dritto, veniva già divorato da milioni di insetti ronzanti sotto le sue propaggini […] da molti vermi ed insetti coriacei gialli, marroni e neri […] milioni nel corpo di un solo albero svettante. L’albero cade e gli insetti se ne appropriano completamente”.
Il compositore ungherese Béla Bartók ha fuso mirabilmente nelle sue opere la musica popolare dell’Europa dell’est con la musica d’avanguardia. Piccolo e gracile nel fisico ma determinato a perseguire gli ideali della sua musica senza mai scendere a compromessi e sfidando le avversità con ostinazione e fierezza fossero gli ambienti musicali prima, il nazismo poi e in ultimo la leucemia che lo porterà alla morte nel 1945 dopo aver speso gli ultimi mesi di vita a comporre in una vera e propria lotta contro il tempo che gli scavava dentro come quegli insetti che nelle sue lettere erano la metafora della sua malattia.

La lucertola di nome Gesù

Il losco figuro che me li fece conoscere mezza vita fa era esaltato dal loro nome: “Gesù lucertola” cianciava. Ma si trattava semplicemente del basilisco, capace di camminare sull’acqua. E forse di sguazzare nel sangue della vasca da bagno di Mary, primo atto di un repertorio seriale di nefandazze ora narrate ora sputacchiate da David Yow.

Yow dopo l’esperienza dei seminali Scratch Acid richiama il bassista Dave Sims,  nel frattempo reduce dai Rapeman di Steve Albini con il batterista, sempre ex Scratch Acid, Ray Wisham e insieme arruolano il chitarrista Duane Denison e registrano l’EP Pure. Seguiranno altri sette dischi in dieci anni, tutti con un titolo di quattro lettere e tutti senza indietreggiare di un millimetro  dal loro post-hardcore al fulmicotone. Signore e signori: The Jesus Lizard.

Ricomincio da tre

“L’Infonie exorcised a lot of fantasies. A rage for living occupied our spirits” Raôul Duguay


L’Infonie nasce in occasione dell’Expo di Montreal. Comprende di tutto: musicisti, ballerini, pittori, designer e chiropratici ma con il chiodo fisso del numero tre. Il primo disco del collettivo francofono, noto come Volume 3, è un tritatutto, registrato dai 33 membri della band, dove sono centrifugati il jazz, l’avanguardia, la classica e la psichedelia. Il secondo, Volume 33, è un adattamento di In C di Terry Riley. Il terzo, Volume 333, contiene Paix, un poema camaleontico suddiviso in 50 sezioni, e rivisitazioni di Bach. Insoddisfatti di questa prima versione di Paix, ne rielaborano una seconda che costituisce interamente il quarto ed ultimo album ovviamente intitolato Volume 3333.

Elogio della sottrazione

Ci sarebbe da arrossire di vergogna per aver ascoltato tutta quella musica plastificata di band phonate e cotonate che hanno contribuito ad allargare il buco dell’ozono con i loro ettolitri di lacche spray. Musica che in molti casi andrebbe messa al bando così come fatto per i clorofluorocarburi.

E ancora qualcuno organizza serate di musica anni ’80 a base di A-ha, Duran Duran, Europe e sempre, dico sempre, l’immancabile colpo di grazia di YMCA.

E d’obbligo sono pure i Talk Talk che tra un disco insulso e uno insipido erano riusciti a piazzare due bei singoli come It’s my Life e Such a Shame. Prima della svolta che li condannò all’oblio. Mark Hollis e soci invece di proseguire nel synth-pop da classifica, abbandonato ogni fronzolo, ridussero la loro musica a strutture scheletriche, di dimessa psichedelia. Due splendidi dischi, Spirit of Eden e Laughing Stock di slowcore, poi lo scioglimento.

La fabbrica dei robot

Formatisi a Birmingham  negli anni settanta e capitanati dai fratelli Godfrey, ribattezzatisi Epic Soundtracks e Nikki Sudden, gli Swell Maps sono stati una delle band più originali del post-punk britannico. Bastarono un paio di singoli per essere notati dal DJ John Peel, che li convocò a una memorabile session alla BBC nell’ottobre del ’78, e dal genio di Mayo Thompson, nel periodo in cui, messa da parte l’esperienza freak-out e psichedelica dei texani Red Crayola, lavorava per l’etichetta londinese Rough Trade e produsse il primo memorabile LP A Trip to Marineville. Il secondo LP Jane from Occupied Europe, uscito per la Secretly, rincarò ancora la dose di quel post-punk fantasioso minato da mille eterogenee trovate che attingevano alla musica industriale, alla psichdelia, al krautrock.

 

Il futuro antico

Ossa d’aquila, richiami degli Indios dell’Amazzonia, rombo volante, flauto doppio tibetano del Ladak, suoni di bicchieri con acqua elaborati con il nastro magnetico e infine i sintetizzatori: l’ancestrale e l’elettronica. Un futuro antico, il disco dei Futuro Antico. Ma dannatamente e inesorabilmente fuori tempo massimo: era già il 1980 e pochi si accorsero di questo lussureggiante album che vedeva insieme Walter Maioli, già negli Aktuala e Riccardo Sinigaglia, già sperimentatore di musica concreta.